Home Rubriche Lo sguardo altrove Benino e la meraviglia – Prima parte

Benino e la meraviglia – Prima parte

951
Benino - ph Massimo Frenda
Benino - ph Massimo Frenda


Download PDF

Io faccio il presepe perché quando avevo i figli piccoli, lo facevo… Sapete, era un’allegrezza… E anche adesso che sono grandi, io ogni anno debbo farlo… Mi sembra di avere sempre i figli miei piccoli… Sapete… anche per religione. È bello fare il presepio…
Eduardo De Filippo – Natale in casa Cupiello

La nostra realtà quotidiana sempre più assuefatta ad un regime di vita logorante, iperteso e iperbolico ci sta dimostrando che stiamo perdendo in maniera netta e precisa la consapevolezza e la voglia di stupirci. Abbiamo tutto a portata di mano: la rete ci dona conoscenza e universi paralleli, siamo saturi di informazioni ovunque, false o vere che siano.

Siamo cattedrali di sapere, enciclopedie sempre fruibili di dati e di ricerche. Impigrati e obesi dentro il letamaio di Internet, siamo maiali che hanno perso il gusto del confronto e della parola guardandosi negli occhi.

Cos’è la meraviglia in un mondo che sa tutto di sé e che non proietta più sue ombre sul marciapiede che frequenta ossessivamente?

Non è una domanda fondamentale ma è evidente che l’oblio e l’abisso dell’anima siano la nostra nicchia in cui non ci resta che depositare, dopo la passione e la libertà, le ossa di un corpo stressato.

In questo pantano abbiamo capito che non ci piace più o ci siamo fatti sottrare la capacità di vivere l’incontrollabile e non riceviamo più luce. Abbiamo assunto il ruolo del re della banalità e in questo feroce straniamento siamo imballati nella costruzione anche semplice di uno sguardo e di un dialogo.

Un contesto che abbiamo vandalizzato e che non ci permette più di distinguere la ragione dalla finzione e in questo rincorrersi dentro una sala di specchi, la migliore immagine di noi è un avatar scelto in chiave irrealistica per darci una dimensione e magari un senso.

Eppure, stupore e sorpresa sono strettamente legati alla curiosità e al desiderio di imparare. La sorpresa consente l’attivazione dell’attenzione, la comparsa di comportamenti esplorativi e investigativi e indirizza i nostri processi cognitivi – memoria, concentrazione, attenzione – alla situazione che si è creata.

Non penso che questo modello di società che stiamo definendo produca tali stimoli. Eppure, credo che bisognerebbe sperimentare la meraviglia, perché può essere un’esperienza chiarificatrice, nella misura in cui costringe chi la collauda a ristrutturare i propri schemi mentali e cognitivi.

E ancora: la meraviglia può essere accesa da un’ampia varietà di stimoli la cui unica particolarità comune è portarci ad allontanare l’attenzione da noi stessi e a farci sentire parte di qualcosa di più grande. Non capiamo che essa è intorno a noi.

Abbiamo smarrito la capacità di concentrarci anche nel fare i gesti più semplici; magari osservando la nostra manualità ci accorgeremmo dello stupore anche infantile che rinasce in noi.

Così come può essere meraviglioso scovare un paesaggio o avvertire il brivido di un profumo che risale da antichi ricordi sopiti. La meraviglia, insomma, è una finestra verso l’infinito, che possiamo schiudere per trovare un po’ di consolazione in questi tempi sinistri e claustrofobici.

Trovo che essa permetta l’accesso ad una sorta di trascendenza, in cui è appunto possibile e molto appagante percepire la sensazione di unità. Poiché la realtà è molto complessa e ancora misteriosa, credo che sia possibile meravigliarsi molto spesso. Il fatto che non succeda di frequente ci deve far pensare che la meraviglia sia comunque sperimentabile su permesso anche di altri elementi che interagiscono.

In questi giorni natalizi l’usanza del presepe ci riporta proprio alla meraviglia: la quintessenza del tornare indietro nel tempo, il cuore dei nostri ancestrali sogni, il motore di ogni iniziazione.

A Napoli il presepe è un’istituzione: già amatissimo a casa Borbone, iniziò a cambiare nelle scenografie ed arricchirsi di nuovi personaggi che diverranno poi quelli canonici a cui oggi siamo abituati. Fu un divertissement di corte per inserire simbologie iniziatiche in quello che stava mutando in un vero e proprio fenomeno di costume a livello europeo.

Possiamo definirla la Magnus opus, la Grande Opera dove si conduce progressivamente ad una metamorfosi personale e spirituale in una metafora del percorso iniziatico di purificazione. Pur se lontano dal sapere iniziatico anche il popolo assegnò un nome ed un’accezione altro a tutti i pastori.

Così i vari mestieri cominciarono a rappresentare i mesi dell’anno a loro associati: gennaio sarà indicato dal macellaio, febbraio dal venditore di formaggi, marzo dal pollivendolo, aprile dal venditore di uova, maggio dalla coppia di sposi con il cesto di ciliegie, giugno dal panettiere, luglio dal venditore di pomodori, agosto dalla bancarella con i cocomeri, settembre dal seminatore, ottobre dal vinaio insieme al cacciatore, novembre dal venditore di caldarroste e dicembre dal pescivendolo.

E arriviamo a Benino che raffigura il sonno dell’umanità prima dell’avvento di Cristo, l’età dei “gentili”. Legenda vuole che se venisse di colpo svegliato il presepe sparirebbe. Egli è il pastore dello stupore, quello che nella sua meraviglia dorme il sogno vero. Per gli interessanti significati a lui connessi è personaggio di primaria importanza.

Viene sempre disposto sul punto più alto del presepe, rappresenta il cammino esoterico verso la grotta, il percorso in discesa attraverso il sogno, il viaggio compiuto da un giovinetto, da una guida iniziatica, da un bambino.

Tutto quanto avviene e diviene comprensibile solo mediante un viaggio onirico effettuato con la guida di un animo visionario che sprofonda nel mondo interiore della conoscenza.

Alla fine del viaggio, sorpassate le paure e le varie tappe, questi, dinanzi alla grotta della Nascita, o della ri-Nascita, si proietta nel cosiddetto pastore della meraviglia, che, abbagliato dalla rivelazione, dominato dalla dionisiaca luce non riesce a individuare le parole per esprimerla.

E quel silenzio è poesia d’amore e un biglietto per un futuro in cui si entra e si esce senza capire. In quel mutismo c’è l’ineffabile perdersi di fronte alla struggente bellezza del creato. Chi può capire capisce, chi può guardare vede.

Oltre il tutto non c’è il niente, c’è la visione e la verità, l’obbligo di credere a chi sa essere re senza corona in un labirinto di immagini e colori che confondono e si fondono. Sappiamo, anche che Benino è un riferimento alle Sacre Scritture, creato per motivi di fede e per realizzare una rappresentazione quanto più autorevole possibile dell’evento.

È il pastore paziente che sembra il meno interessante ma che, appunto, è la metafora che si presta a mille interpretazioni.

La leggenda popolare presenta questo personaggio mentre dorme nello stesso presepe che sta sognando: il fatto è ispirato dal passo evangelico che descrive l’annuncio degli Angeli ai pastori dormienti, il sogno di Benino non deriva però da un semplice sonno ozioso di un giovincello stanco, ma rappresenta, invece, il momento in cui l’uomo accoglie nella sua totale pienezza l’evento straordinario del mistero dell’Incarnazione. Tanto che nel suo sognare egli stesso diventa protagonista delle trasformazioni del creato e della natura che gli appaiono attorno.

Sappiamo che nel corso del tempo la sua figura è stata utilizzata per far passare molto più del semplice messaggio del sonno. È chiaro che il sonno implica il risveglio e, quindi, la rinascita in un nuovo mondo, in cui è stata rivelata la volontà di Dio, grazie all’arrivo di suo Figlio.

Ora, al di là dell’interpretazione puramente religiosa, è evidente che si sta parlando di un nuovo giorno e di una nuova vita. Il risveglio inteso come l’aprire una porta che ti porta in un altrove che potrebbe cambiare le abitudini e che potrebbe essere il motore rigenerante di un’esistenza diversa e differente.

Ne parleremo ancora la prossima settimana. Buon Natale a tutti.

E quella maggioranza che vede nel Natale una sciocchezza e nel presepe una commedia infantile, non si rende conto di quale enorme difesa di fronte alla stanchezza della vita, alle abitudini, ai tedi, alle fatiche, essa privi il bambino, e col bambino l’uomo, quando reprima e lanci l’interdetto a quello spirito di stupore.
Emanuele Samek Lodovici 

Print Friendly, PDF & Email

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.