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Figli di un narcisismo minore

18017
Santamonica Boulevard


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Non intendo entrare, in questa breve riflessione, in complesse considerazioni di politica internazionale, né potrei, non ritenendo di possedere le necessarie competenze tecniche.

Qualche riflessione, vorrei, invece farla sulla postura epistemica del soggetto che indaga, che riflette, che guarda agli eventi politici di questo primo quarto di secolo.

L’immagine che ne consegue è innanzitutto quella di una polarizzazione percettiva, di una volontà di re-identificazione di un io disperso dal mondo grande e terribile dell’ipercomunicazione, cercando di essere affannosamente al passo, dal punto di vista critico, di eventi i quali, fatalmente, non lo chiamano quasi mai in prima persona.

Ma si sbaglierebbe a ritenere che le conseguenze di tale modus (non) agendi coinvolgano esclusivamente la sfera privata. Il fatto che il 99% delle persone “tifi” per qualcuno, esibendo bandiere e concentrandosi sulla ripartizione ormai consueta di innocenti e colpevoli significa, sul piano storico, una profonda individualizzazione dei conflitti e le tragedie di quest’epoca.

È l’Io, in fondo, l’unico soggetto storico a sopravvivere al collasso politico che dalla fine del Novecento non ha più dato segni di vita evidenti. Persino il bene e il male dell’ideologia, forme oggettive del politico, si sono rastremate in ragione o torto, forme metafisiche del soggetto.

L’Io, con i suoi multipli associativi, diviene l’interlocutore privilegiato della storia in luogo della collettività politicamente individuata. Il suo multiplo simbolicamente meno problematico, la società civile, si sfilaccia in colori nazionali ogni volta diversi da sventolare sulle bacheche, nelle chiese, per le strade.

I colori ci spingono come un nuovo richiamo primordiale e sirenico, suscitando pathos, empatia e indignazione. Ci fidiamo solo di loro e non accettiamo discussione, fino a cambiare colori in ottemperanza a nuove tragedie.

Intanto, non abbiamo tempo per approfondimenti e, meno che mai, per distinguo: gli eventi ci servono per risintonizzarci al mondo come soggetti d’azione, non come uomini del dubbio. La tragedia ha, da sempre, una forma soterica, ma forse mai come ora sconta le spoglie critiche di un soggetto collettivo ormai evanescente.

Finiamo così per celebrare una forma collettiva di quella che Gillo Dorfles, in un dimenticato articolo del 2006, chiamava “narcisismo minore”, caratterizzata da una “gigantizzazione” dell’Io, tanto maggiore quanto maggiore è l’estraneità – vissuta come una ferita – rispetto agli eventi che contano.

La conseguenza è un susseguirsi di bandiere appuntate al petto delle nostre stories, che nella grande maggioranza dei casi non ricercano altro che il bianco del buono e il nero del cattivo, con la ceralacca social della nostra altera benedizione.

Del cattivo abbiamo in particolare bisogno per poterci muovere nella Storia, grazie ad un’eterna quanto sterile reductio ad Hitlerum, ad un ennesimo cartellone a caratteri cubitali sulla nostra personalissima Santamonica Boulevard esistenziale, prima che il sole tramonti, che ci indichi la taglia del giorno, che ci svegli dal solito torpore, profumando di antiche ed eroiche gesta e permettendoci quindici minuti di artistica indignazione.

Siamo finalmente felici che qualcosa, in questo mondo d’opinioni, si avvicini chiaramente all’identificazione col male, e possiamo dire urlando “Lui ha torto!” gonfiandoci il petto.

La Guerra mangia la Storia e l’Individuo le inghiotte entrambe.

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Autore Giuseppe Maria Ambrosio

Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.