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Il dramma e l’occasione: riflessioni da una soffitta

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Sono indubbiamente giorni in cui bisogna tenersi impegnati, innanzitutto col pensiero. La nostra dose quotidiana di memoria volatile, congeniale alla frenesia del quotidiano, si mostra improvvisamente per quello che è; superficiale, parziale, ingannevole.

È necessario pescare più a fondo, spingersi giù, sino ai ghiacciai delle memorie antiche, quelli che lasciamo inesplorati per mancanza di tempo, tacendoci da tempo la paura e l’energia necessaria ad osservarli.

Ma la mente va tenuta sveglia; ed è così che mi sono ritrovato in un appartamento di mattoncini color ruggine ed alti finestroni, in una strada di Grünerløkka, ex quartiere operaio di Oslo, dove, venticinquenne e ancora studente, trascorrevo i mesi invernali in compagnia della mia – al tempo – adorata compagna norvegese. Più di tutto, di quei mesi ricordo il silenzio.

Dalla mia finestra osservavo un mondo fatto di pochi passanti, indaffarati a muoversi nel grigio e nel bianco, attraversare il mio campo visivo senza emettere suoni degni di nota. A pensarci, sembrava che fare silenzio fosse la loro principale occupazione. Ricordo ancora quell’iniziale piacere verso quel mondo di quiete, utopia sonora per le mie latitudini d’origine, trasformarsi lentamente in ronzio, poi in rumore, poi in fragore.

L’immancabile, artistico, paranoico fragore della mente che rovina sul vuoto, finendo per sperare, disperare che qualcuno faccia, in qualsiasi modo, rumore.

Allora come oggi, ci sono poche, pochissime persone in giro qui a San Nicola la Strada, paese di venticinquemila abitanti in provincia di Caserta, comunità abituata a ben altri decibel di vita. Mai avrei immaginato di dovermi confrontare anche qui, a vent’anni di distanza, con quell’attesa indefinita, quella sensazione di minuti composti, di attimi radi come filari, di voci individuali così riconoscibili da suscitare sospetto, quel riguadagnare campo dei rumori d’ambiente di solito tramortiti dal pieno dei meccanismi umani.

È l’horror vacui, con buona pace di quanto affermava Dorfles, ancora il timore supremo dell’uomo contemporaneo, il quadro tenuto nascosto in soffitta di un sé trascurato ed invecchiato, a dispetto dell’energia giovane e caparbia richiestaci dalle incombenze dei giorni, dei mesi, degli anni.

È il nulla, ancora e più che mai, ad affliggerci più del troppo, che pur ci porge solida balaustra su cui poggiare la disperazione. Non Fare: è questa la sfida più dura, al netto dei pericoli del virus e delle difficoltà lavorative di molti, a cui siamo chiamati, ora, come singoli.

Durissima, essendoci adattati ad una dimensione ontologicamente poietica: vale a dire, siamo il nostro fare, e ciò che facciamo è percolato sin nelle radici del nostro essere, al punto da renderci irriconoscibili a noi stessi se ci ritroviamo, per di più improvvisamente, con “più nulla da fare”.

Qualcuno ha parlato di virus del contrappasso, e ci ha preso: frena le economie ma ripulisce l’ambiente, accresce le distanze tra le persone evidenziando il nostro darle sciattamente per scontate, obbliga al nucleo familiare e ai suoi ritmi, da tempo sacrificati a dozzine di altari diversi.

Più di tutto, il virus obbliga a fare i conti con la propria persona, a ristabilire una distanza tra sé e il proprio futuro, le ambizioni, i fallimenti, le domande che usualmente deleghiamo all’opera centrifuga e annichilente dei giorni.

È un sentiero silenzioso e solitario, che – come ogni viaggio, reale o metaforico che si rispetti – può condurre ai margini della paranoia, ossia al dramma di un tempo finalmente e terribilmente a nostra disposizione; oppure ad una conquista. Quella di un ritrovarsi, attraverso le ore, provando a riavvolgere le tappe della corsa, e sfidarle tutte intere, fragili e responsabili come ora siamo. Regredendo a quel tipo di volontà e di memoria originarie che unicamente uno stadio di profondo smarrimento può garantire. Se ci riusciremo, ne usciremo capaci di riconoscere il frastuono ed il vuoto per ciò che sono, semplici luoghi in cui la nostra individualità può sostare, senza esservi tuttavia mai risucchiata.

Riguadagnandoci per ciò che semplicemente siamo, prima ed oltre, sempre oltre, il nostro fare. Non dovremmo perderla, quest’occasione. Dopo tutto, quella soffitta tanto temuta è l’unico luogo che davvero ci identifica.

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Autore Giuseppe Maria Ambrosio

Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.