Home Rubriche Il viaggio è un'impresa ‘Per colles’: da via Terracina a Pozzuoli

‘Per colles’: da via Terracina a Pozzuoli

22960
Rione Terra a Napoli
Rione Terra a Napoli


Download PDF

Neapolis – Puteolos attraverso l’antica via Antiniana

12 luglio 2020

La mattina riscalda il cielo dando inizio al lungo rettilineo di quasi due chilometri di via Terracina. Attraverso via Cinthia trovandomi agli ingressi del cimitero di Fuorigrotta.

Un luogo lontano da quello che era l’antico centro del villaggio posto al di là della Crypta Neapolitana, pressoché coincidente con l’attuale piazza San Vitale. Il cimitero è posto all’incirca 30 metri più in alto, alle pendici del cratere di Agnano. Da qui l’accesso ai Campi Flegrei.

Lo si sente il cambiamento. Napoli è diventata altro. Napoli ha superato il proprio confine. Si entra, ora nella terra che era mito per gli stessi abitanti della città.

Attraversare via Cinthia è guadare un fiume di confine al di là del quale le terre divengono arse dal fuoco e ricoperte da buie foreste circondanti antichi crateri vulcanici abitati da esseri leggendari. Si oltrepassa il confine e sono accolto dalla vita e dalla morte.

La porta di accesso di via Terracina ha due stipiti, due colonne, due luoghi: da un lato il cimitero e dall’altro le terme. Il luogo sacro, voluto da Ferdinando IV di Borbone, e il luogo profano, realizzato nel II secolo dopo la nascita di Cristo per dare ristoro ai viaggiatori. L’uno di fronte l’altro. Viaggiatori tra vivi viaggiatori.

L’antica strada per Pozzuoli correva poco più giù rispetto all’attuale via Terracina. Suoi tratti ben conservati sono ora inglobati nel complesso della Mostra d’Oltremare prendendo i nomi di via Cuma a Fuorigrotta e, all’altezza della fontana dell’Esedra, via Palepoli a Fuorigrotta, dove è presente anche un mausoleo completamente abbandonato.

Lungo via Terracina furono edificati il podere appartenente alle Monache di Donnaregina e una torre che il Carafa chiama “Torre di Mezza Strada”. Probabilmente ciò che ne rimane si trova nell’accozzaglia di strutture sia all’interno del perimetro della Mostra d’Oltremare che in quello dello zoo, nonché subito fuori di essi lungo la via Cuma.

Poco prima dell’Istituto ‘G. Rossini’ delle scale portano giù sul piano della storia, il piano dell’antica via che univa Napoli a Pozzuoli.

Alle mie spalle, in alto, via Terracina e, subito sotto, la luce mi rende partecipe del passato attraverso il sottopasso che congiunge all’antica via.

Il senso del ritorno a qualcosa di interiore e profondo lo avverto. È l’antico che con forza penetra attraverso le caotiche strutture costruite a più riprese l’una sull’altra, in un incessante ciclo di distruzione e riedificazione.

Via Vecchia Agnano si congiunge alla via San Gennaro, ma all’altezza dell’Hotel Montespina giro a destra per via Agnano agli Astroni dove Johannowsky pose il terzo miglio. La strada diviene subito stretta costeggiando i fianchi della collina del Monte Spina.

Ecco l’altra area di sosta lungo la via Napoli – Pozzuoli: il complesso termale delle Terme di Agnano. Al periodo a cavallo tra il IV e il III secolo avanti Cristo risalgono le prime strutture rivenute, per poi divenire, nel II secolo dopo Cristo, il grande complesso termale che ,sotto le acque del lago di Agnano, è perdurato fino ad oggi.

Terme di Agnano a Napoli
Terme di Agnano a Napoli

Fu nel 1870 che, per debellare la febbre che colpì il villaggio di Fuorigrotta e le aree limitrofe, iniziarono i lavori di prosciugamento. La struttura che da lì a pochi decenni sarebbe nata assunse l’eleganza del liberty neo egizio, riportando gli ospiti in quel tempo sospeso collocato negli anni dieci del XX secolo. In gran parte ancora presente, l’opera di Arata costeggia il lato destro della strada con i suoi ingressi ieratici.

Continuo il cammino imboccando via Scarfoglio e da lì la via Antiniana. Oggi l’area è ricoperta da rivenditori di automobili. Da lontano la roccia sbuffa vapori solfurei. La strada inizia la propria salita per uscire dal cratere.

L’origine del cammino si sta compiendo. Due miglia da percorrere ancora verso il centro di quel mondo fuggito da Samo stillante, come goccia di sangue e oli profumati, sul mare.

Mercanti e viaggiatori solcavano questo stesso tracciato. Le fumarole erano pressoché le stesse, ma il paesaggio intorno no. L’aria era pesante e si attraversava un luogo quasi inospitale con la caldera attiva della Solfatara che delimitava, e ancora delimita, la parte superiore del cratere. La fatica si impossessava dei loro corpi insieme ai timori e alle credenze nate in questo luogo.

Dall’alto il susseguirsi dell’attività vulcanica si mostra nella sua apparente quiete attraverso i bordi dei crateri divenuti colline immerse nella luce diafana del mattino.

L’incontro con via San Gennaro è la porta d’uscita di quello che per molti era la manifestazione concreta degli inferi. Torno al cielo dopo aver attraversato le profondità della terra.

I cancelli dell’IPSEOA ‘Lucio Petronio’ sono chiusi sul lungo viale che termina con l’edifico di fine Ottocento, un tempo sede del Comitato di Pozzuoli della Croce Rossa Italiana.

IPSEOA 'Lucio Petronio' a Napoli
IPSEOA ‘Lucio Petronio’ a Napoli

Il sole è ormai comparso in tutta la sua arsura e proseguo lungo via San Gennaro fino a che cede il passo a via Solfatara. L’odore forte di questo luogo è sempre più impregnante. Scorre dentro attraversando i polmoni per giungere col suo carico fino alle estremità del corpo.

Goethe scrisse nei suoi appunti di viaggio, riferendosi proprio al vulcano della Solfatara

sotto il cielo più puro, il terreno più infido.

Qui la vita e la morte si stringono nello stesso mistero. Qui l’ombra svanisce rincarando la luce di zolfo. Qui ha inizio la via del Santo, qui sorge il tempio a lui dedicato. Scorse il sangue dal suo corpo privato della testa su questa altura che abbraccia interamente il mare dinanzi Pozzuoli. Eccola lì, in fondo, come a staccarsi dalla terra che la trattiene.

È tempo di riposare al Santuario dedicato ai Santi Gennaro, Festo e Desiderio.

Santuario di San Gennaro a Napoli
Santuario di San Gennaro a Napoli

Un’epigrafe in marmo posta sul sagrato recita:

D. Ianuario iam olim Dioclitiani scelere obtruncato ne quod sacri corporis sanguine madue rat solum sine honore diutius permaneret Neap. civitas aere pub. P. C..

Entro nella chiesa. Anziani sono qui in attesa del compimento del Rito. Una luce particolare pervade ogni angolo di questo luogo. Le forme tendono a confondersi, a sfumare compiendo strani giri attorno alle pazienti figure umane. Mi metto vicino l’entrata, o uscita, dipende dalla prospettiva dell’anima.

Due signore, pronte per il rito domenicale, mi si avvicinano iniziando a raccontare della chiesa, del martirio.

Come un’iniziazione, senza che la mia volontà possa intervenire, quasi sopita, le due anziane mi introducono ai misteri che stanno per compiersi.

Da dove viene?

mi chiede una di loro.

La mia risposta la leggo sul volto quando alla domanda successiva

A piedi?

rispondo di sì.

Il Cammino di San Gennaro. Ho ripetuto il percorso a ritroso del santo le cui reliquie giunsero a Napoli. È il ritorno ad una origine, non più del Cammino romano, ma dello spirito.

Su questo promontorio Gennaro sorse nella sua santità come Giano richiamato nel suo nome. Con lui fu sancita la rinascita del culto antico: il corpo fu privato della testa, quella stessa testa che in Giano era sede del Tempo. Il doppio volto che proteggeva il passato preservando il futuro. Nel suo centro l’eterno presente.

San Gennaro
San Gennaro

Alcune fonti, essendo Januarius il nome della famiglia del santo, danno a questi il nome di Proculus, “colui che è lontano”, lo stesso del diacono puteolano martirizzato insieme a Gennaro.

Janus, Proculus Januarius. I fili simbolici attraverso la tradizione delle nominazioni conduce a percorrere corridoi e antri lontani.

Le porte si aprono e il guardiano continua la propria veglia: da un lato Pozzuoli, dall’altro Napoli. E il doppio si preserva, inconsapevolmente, anche attraverso il punto scelto come inizio del mio cammino: l’antico tempio dei Dioscuri.

Una teca in vetro protegge la Sacra Pietra che vide il martirio dell’uomo e la nascita del Santo.

Pietra del martirio di san gennaro.jpg
Pietra del martirio di San Gennaro a Napoli

Due rose a sei petali iniziano alla vita, tra esse una croce, simbolo solare, congiunge l’Alpha e l’Omega, il Principio e la Fine, ciò che è stato e ciò che sarà, tenuti insieme dal Sole, simbolo del presente in trasformazione. Ecco la morte di un Dio e il sorgere di un Santo. Un’eterna mutazione che torna alla vita attraverso il sangue.

Lo spazio aperto antistante la chiesa e il convento francescano mi attendono. Un signore, avrà poco più di settant’anni, siede su una panchina. Pantaloni scuri, camicia bianca e righe sottili blu e bretelle marroni. Le maniche sono tirate su con dei risvolti. Dinanzi, il suo cane gioca rincorrendo le proprie realtà immaginifiche, o assolutamente reali.

Il silenzio governa questo tempo. Resto facendo correre lo sguardo lontano verso il mare sul Rione Terra, su Pozzuoli risorta più volte dalla stessa roccia.

Via Solfatara prosegue ancora per un po’, ricordando la potenza attiva del vulcano che le dà il nome. A sinistra si apre via Vigna, con il lastricato romano divenuto parte dei muretti e delle strutture abitative innalzate nel corso degli ultimi cinquant’anni.

Struttura romana inglobata in edificio moderno a via Vigne a Napoli
Struttura romana inglobata in edificio moderno a via Vigne a Napoli

Una strada in discesa che per il primo tratto fiancheggia la soprastante via Solfatara fino all’osceno ponte della Variante che poggia sulla necropoli ormai lasciata nelle mani del Tempo.

La strada ha cercato di preservare il ricordo dell’Anfiteatro Minore, tagliato dalla direttrice FS Napoli – Roma, i cui resti sono ormai parte di edifici moderni. Uno scempio continuo.

Struttura romana inglobata in edificio moderno a via vigne a Napoli
Struttura romana inglobata in edificio moderno a via vigne a Napoli

Fu più o meno in questa parte dell’antica via da e per Napoli che Johannowsky pose il primo cippo miliare del cammino.

Proseguo arrivando fino all’anfiteatro Flavio, quello nuovo, più grande realizzato nel I secolo dopo Cristo per ospitare anche le esibizioni delle condanne “ad bestias” a cui avrebbero anche dovuto sottoporsi i santi Procolo e Gennaro; la leggenda riporta, però, che gli animali si inginocchiarono ai loro piedi, facendo sì che la pena fosse tramutata nella decollazione.

A ricordo di ciò fu realizzata all’interno della struttura una cappella in cui una statua raffigurava i due santi nell’atto di abbracciarsi. Quale simbologia più alta per questo cammino!

Anfiteatro Flavio a Napoli
Anfiteatro Flavio a Napoli

Posato tra l’erba verde, la luce del sole pervade le fessure della struttura tagliandola in ombre nette e scure così che i fili d’erba, le pietre sparse, i piccoli fiori corrano lungo le sue pareti in forme nuove. Quiete. Forse non era così quando l’aspersione di sangue rendeva la pace un sentimento lontano e quasi sconosciuto.

Superata Villa Avellino mi imbatto nel vuoto, nell’area occupata fino al 1984 dal palazzo sede del Comune di Pozzuoli. Anno, questo, in cui riemersero le strutture delle corporazioni dei flautisti e degli scabellari.
Lo stato di abbandono è eloquente di quanta poca sensibilità ci sia nei nostri governanti.

Il cartello informativo lì posto riporta sommariamente la storia di questo luogo:

Il “Collegium dei Tibicines” II sec. d.C. – IV sec. d.C..

Le strutture, rinvenute nel 1984 in seguito alla demolizione del vecchio Municipio di Pozzuoli, appartenevano alla sede (schola) dell’associazione professionale dei suonatori di flauto, che doveva sorgere in prossimità del teatro. L’edificio è posto ai margini della terrazza mediana dell’antica Puteoli, lungo l’asse stradale antico che, dal foro transitorio, portava al Rione Terra. Alcune epigrafi trovate lungo questa zona attestano che in questo luogo sorgevano i collegia appartenenti alle corporazioni dei tibicines (flautisti), e degli scabillarii (suonatori di scabellum), attività legate al teatro. Anche se raffigurato sulle fiaschette vitree, il teatro non è ancora stato localizzato; si pensa, tuttavia che esso, probabilmente, sorgesse nelle zone impegnate dai collegia.

Non si conosce altro di questo luogo e di questo passo, se il degrado dovesse continuare, sicuramente anche questa poca conoscenza andrà persa.

L’antica Strada del Duomo prosegue serpeggiando a difesa del Rione Terra. Qui la chiesa di Santa Croce, conosciuta prima del 1779 con il nome di Santa Maria della Pietà, ed oggi anche come chiesa del Purgatorio, in stato di abbandono, saluta i viaggiatori come una vecchia signora lasciata morire sul ciglio della strada.

Chiesa di Santa Croce a Napoli
Chiesa di Santa Croce a Napoli

Un cartello ricorda l’edificazione risalente al 1639 tralasciando la storia delle anime purganti e della Confraternita della Morte, che nella cripta dava vita ai propri rituali. Un tempo le notti erano vive, notti in cui le uniche luci visibili erano quelle delle candele tremolanti.

Lascio a malincuore questo luogo nascosto da un giovane albero per proseguire verso il tempio di Augusto.

Immergersi nel Rione Terra ha per me un sapore sempre nuovo. Sono davvero poche le volte che sono riuscito ad entrarvi, forse un paio.

Ingresso Rione Terra a Napoli
Ingresso Rione Terra a Napoli

Non ho mai apprezzato i colori utilizzati per il restauro/ricostruzione degli edifici: rosso e ocra. Li trovo innaturali, un po’ come il centro storico di Varsavia ricostruito dopo l’ultima guerra.

Strada Rione Terra a Napoli
Strada Rione Terra a Napoli

Il passo si fa più lento, come a voler sorseggiare acqua fresca da una fonte. Gli stretti vicoli, i palazzi stessi sono vuoti, se non in alcune stanze dove le tende sembravano muoversi.

Non racconterò della storia di questo luogo, sarebbe come aggiungere un qualcosa di già letto e scritto. Non racconterò del percorso archeologico sotterraneo che si sviluppa sotto i piedi dei viaggiatori di superficie o delle leggende di fantasmi che sembra vivano tra le sue antiche pietre. No.

Racconterò del silenzio e della lieve aria fresca di alcuni vicoli posti in ombra. Li seguo fino al ricomparire della luce attraverso il mare e il cielo che avvolgono la rocca. Si mostra, questa, come una conchiglia attorcigliata e rivoltata, dove i palazzi si innalzano a mo’ di spire e le strade ammorbidiscono come i solchi che quelle stesse spire formano tra loro.
Il mare e il cielo danno al cammino l’odore e il suono dei millenni.

Procedo verso quello che per me rappresenta il termine di questo cammino: il Capitolium, il tempio di Augusto, la basilica cattedrale di San Procolo Martire. La congiunzione ideale tra il tempio dei Dioscuri, a Napoli, e il tempio della Triade Divina a Pozzuoli. Dai luoghi del rito di Gennaro a quelli in onore del suo germano Procolo.

Il tempio non è subito visibile. Nascosto in un labirinto di vicoli la sua luce bianca, accecante si lascia seguire. Le colonne appaiono tra strutture ancora in restauro, quasi celati da detriti messi in un principio di ordine.

Arrivo all’entrata laterale dove gli spazi tra le antiche colonne del pronao sono occupati da vetro. È una teca al contrario dove quel vetro non protegge l’antico, ma i vivi che dal tempio antico passano al tempio cristiano in una continuità unica e meravigliosa.

Cattedrale Rione Terra a Napoli
Cattedrale Rione Terra a Napoli

Sì, meraviglia è il sentimento che mi prende. È un presepe quello che ho davanti, ed io mi sento il pastore della meraviglia in ginocchio, con le braccia aperte davanti alla nascita divina.

All’interno, varcato l’accesso in vetro, il contrasto tra la luce e l’ombra è netto sulla soglia tra l’antico tempio e la cattedrale. Poche le persone in preghiera. Una coppia giovane, forse non avranno neanche 35 anni, è seduta su una delle panche, in legno chiaro e lucido, prossime all’altare.

Cattedrale Rione Terra a Napoli
Cattedrale Rione Terra a Napoli

Si stringono in silenzio mentre si raccontano e raccontano dell’amore. Qualche seduta più indietro un’anziana dai capelli corti e biondi ha gli occhi lucidi, mentre all’esterno un bimbo chiama la propria mamma.

Tutto qui dentro diviene ovattato e adimensionale. Il Tempio si trasforma in sala dei passi perduti, luogo tracciato da ognuno dei presenti.

Sorgeva qui l’acropoli dell’antica Dicearchia. A differenza di quanto accaduto altrove, questa rocca ha continuato a vivere e a svilupparsi, modificandosi nel corso dei secoli e dei millenni, ma senza scomparire.

Il Rione Terra non è come l’Acropoli di Atene che si vede dal basso o da lontano al di sopra di una collina delineando i contorni di un pezzo di cielo. No, non è lì con i resti del proprio passato lasciando che il tempo prosegua ai suoi piedi. È invece viva, essendo riuscita a modellare la propria anima attraverso le ere, conservando al contempo la struttura originaria della fondazione.

I colori accessi ocra e rosso del restauro, i vuoti percorsi preservati nel sottosuolo sono ora alle mie spalle, mondo alieno rinato da mano aliena. Pietre ricostruite, riposizionate da un passato che le ha viste vive fino a pochi decenni fa. Poi il nulla che divora. L’assenza. L’abbandono dell’amata.

E così quel passato vivo divenne mondo alieno, non più vissuto dai nuovi esseri umani che hanno iniziato a stabilirsi nei suoi dintorni come anello a cingere il “monolite nero”. Oggi quella vita sta tornando, sotto altra forma, ma il processo del ritorno è iniziato.

Ultima sosta prima del ritorno. La fontana dei Quattro Cannelli mi dà sollievo dal calore ormai incombente. Faccio scorrere l’acqua fresca sulla testa, come abluzioni fatte prima di entrare in un luogo sacro.

Questa volta, alla fine di un cammino, sigillano, sacralizzano quanto appreso, quanto raccolto dai miei passi. Tre bambini giocano nella grande piazza della Repubblica. Una mamma con il figlio mangia un gelato qui accanto a me.

Il cammino si è compiuto.

Mi dirigo verso la vicina stazione dei treni.

Imboccata via Giuseppe Mazzini scorgo, sulla facciata di un palazzo ad angolo, la seguente targa:

Le donne di Pozzuoli memori delle vittime della guerra unite s’impegnano a difendere la pace 28-11-1948.

Dei fiori appassiti ricordano ancora l’amore di chi continua a non dimenticare. Parole dolci e forti dalla Grande Madre attraverso le sue figlie.

Targa

Print Friendly, PDF & Email

Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!