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Verso la cima del Monte Amaro

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Bivacco Pelino - ph Fabio Picolli
Bivacco Pelino - ph Fabio Picolli


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19 – 20 giugno 2021

Scrivo solo ora del Monte Amaro, provando a dare luce ai motivi di questo tempo lungo 6 mesi.

Forse è stato necessario fare posare sul fondo le emozioni provate, sentite in quel turbinio di libertà, stanchezza, paura, respiro, fatica. Forse, oppure c’è dell’altro non ancora compreso.

Partiamo comodi da Napoli arrivando al rifugio ‘Bruno Pomilio’ poco prima di mezzogiorno. Il 19 giugno è stata una giornata calda, ma con il cielo fosco e pennellato di nuvole. Una tavolozza sulla quale il pittore aveva mescolato senza fonderli, con un pennello a punta piatta e larga, un po’ d’azzurro, di bianco, con una punta di grigio e di beige.

Il mezzogiorno, un’ora lontana dai miei cammini, divenne il momento del principio. Parcheggiammo l’auto di fianco al Pomilio. Scaricati gli zaini i passi cominciarono a seguirsi l’un l’altro.

Antonio Balletta è qui di casa. Conosce molti dei sentieri e delle cime che asserragliano l’Abruzzo proteggendolo dal resto del mondo. Anfratti, passaggi, cime che divengono torri di questa fortezza naturale. È lui il detentore delle chiavi d’accesso.

Il cielo era strano e la cima dell’Amaro si nascondeva, anche se di tanto in tanto si scorgeva quel puntino rosso, infinitesimo del bivacco ‘Pelino’. Un paio di chilometri di asfalto lungo il percorso ‘Porreca – Montanelli’ che attraversa il pianoro del Blockhaus e si giunge alla terrazza sui prati della Majella. Di fronte la piccola cappella della Madonna della Neve.

Monte Blockhaus e Cappella della Madonna della Neve - ph- Fabio Picolli
Monte Blockhaus e Cappella della Madonna della Neve – ph- Fabio Picolli

Lelio Porreca fu scrittore – ecologo, difensore della Majella, negli anni 70 del Novecento, dai piani e progetti che avrebbero distrutto per sempre questo ambiente, propendo l’istituzione del Parco Nazionale.

La sua passione e lotta non lasciarono indifferente Indro Montanelli che sulle pagine del ‘Corriere della Sera’ scrisse un appello per la salvaguardia della ‘Montagna Madre’, elogiando Porreca come

pioniere di un nuovo modo di valorizzare la montagna nel rispetto della sua sacralità.

Tanti i passeggiatori, i biker, i trekker, tanti insomma coloro che quel sabato si ritrovarono a godere dello spettacolo della Majella. L’età è qui cancellata, ne esiste solo una: quella dell’anima.

Si era lontani dalle costrizioni mentali. Passammo la Madonnina protetta nella sua cappella incamminandoci sul sentiero P che aggira per il versante ovest il Blockhaus, nascosto in parte dal pino mugo, piccolo albero che ci accompagnerà fin poco dopo Fonte Acquaviva.

Così lo definisce Adriano Fiori nella voce dedicata della Treccani, 1934:

È il più piccolo dei pini nostrali, detto anche pino nano, perché infatti più spesso è cespuglioso, con parecchi fusti o rami prima sdraiati e poi incurvati in alto a guisa di candelabro.

[…] È pianta longeva e ad accrescimento lentissimo […] è preziosa invece come protezione dei paesi alpini contro le valanghe. Dai giovani rami si distilla un olio essenziale detto oleum pini pumilionis o mugolio, che per le proprietà balsamiche è utilizzato specialmente nelle affezioni delle vie respiratorie.

Pianta da rispettare, albero che protettore delle valli dalle valanghe, pino medicamentoso per quanto fitto e inestricabile possa essere.

Due zaini in lontananza anticipano il nostro cammino: sarebbero stati i primi due di tanti. Fermammo il nostro passo poco prima della Fonte Acquaviva per mangiare qualcosa. Da lì proseguimmo per Fonte Ghiacciata dopo aver superato un nevaio. Un cane precedeva il proprio compagno di viaggio muovendosi in maniera naturale sulla neve soffice.

L’acqua veniva giù dalla roccia timidamente. Mi sedetti sui sassi di fianco lasciando che la valle, lontana 2370 metri lì in basso, entrasse nelle viscere. Alle spalle un mondo nascosto dalla sassaia, davanti la libertà estesa, rivelata, forte, ma anche fasulla creata dai miraggi della luce che deformava le linee e i contorni, alterando i colori attraverso un cielo dalle sembianze di perla.

Un gruppo di anziani carichi di sacchi di plastica, attrezzi, secchi di vernice gialla scese come i camosci di queste montagne, con l’esperienza dei passi fatti per una vita, con la forza dello spirito nutrito dalla montagna, come fa una madre con i propri figli. Parlammo un po’ con loro. I sorrisi annullarono la stanchezza. Avevano da poco finito la ritenteggiatura del bivacco ‘Carlo Fusco’ poco più sopra.

Il mugo ha lasciato già da qualche tempo la roccia, la pietra nuda e solitaria. Senza le sue radici nodose diviene tutto instabile e labile. I sassi scivolavano via da sotto gli scarponcini. Piccoli, lisci e piatti sembravano carte di un castello costruito su un tavolo: bastava il minimo movimento diverso dai precedenti e la carta, la singola pietra volava via.

Salimmo fino al bivio per il ‘Fusco’.

Fabio Picolli al Bivacco 'Fusco'
Fabio Picolli al Bivacco ‘Fusco’

Ebbi la prima paura. L’instabilità sotto i piedi aveva attratto un timore atavico, assopito dal tempo e risvegliato dalle circostanze. Continuai lentamente fino a che, a 2450 metri, non si presentò la magnificenza dell’Anfiteatro delle Murelle.

Antonio Balletta - Anfiteatro delle Murelle - ph Fabio Picolli
Antonio Balletta – Anfiteatro delle Murelle – ph Fabio Picolli

Mangiammo qualcosa nel silenzio e nel rispetto di quella sacralità, tra i ciuffi sparsi dei fiori blu di genziana. Erano piccoli regni di mondi lontani. Isole immerse in un mare di pietra e vento.

Era forte il vento, montando invitava ad avvolgersi e coprirsi del solo spettacolo di cui eravamo sì spettatori, ma soprattutto protagonisti perché il tutto era in contatto, perché la sacralità poteva essere avvertita solo da chi ne faceva parte, anche se nel silenzio di un passo muto.

Il nevaio di fronte ospitava dei camosci liberi di saltare da un punto all’altro nella leggerezza assoluta. Incantati lì vicino due fotografi naturalisti. Immobili. Fermi rispettavano i tempi della natura che accoglieva noi tutti.

Sagome contro la luce bianca del cielo voleggiavano sul crinale che conduce alla cima del Monte Focalone. Da lì in avanti il cammino divenne sempre più solitario, o meglio duario.

Gli zaini facevano sentire la loro presenza aggiungendo peso, come se ad ogni nuovo passo raccogliessero il pietrame del sentiero per portarlo con noi. Il vento continuava con forza la propria azione di messa alla prova della nostra volontà. Spingeva forte contro i carichi sulle nostre spalle.

Davanti solo il sentiero, traccia a volte flebile agli occhi, che si faceva spazio in quel mondo nuovo, lunare, alieno.

Non riuscivo ad andare avanti, lo zaino era spinto con violenza lateralmente fino a quando, in cima al Focalone, a 2676 metri d’altezza, ebbi la seconda paura che quasi mi bloccò: distolsi lo sguardo dal sentiero voltandolo a destra nella direzione da cui proveniva quel vento, e gli occhi incontrarono il vuoto, il lungo baratro che si apriva di sotto.

Antonio Balletta - Monte Focalone - ph Fabio Picolli
Antonio Balletta – Monte Focalone – ph Fabio Picolli

Le gambe ebbero un leggero tremolio, ma non potevo rimanere là, così le forzai al primo passo, poi al secondo fino a quando la mente non tornò a concentrarsi nuovamente su di essi e sul sentiero. Superammo la cima. Superai quella paura cercando di lasciarla lì dove si era palesata.

La traccia proseguiva verso ‘Cima Pomilio’ e da lì a monte ‘Tre Portoni’, attraverso le tre selle, i ‘tre portoni’ appunto, lungo la cresta che separa la Valle dell’Orfento e la Val Cannella. Fummo accolti da questa dolce cresta sellata, posta a circa 2550 metri d’altezza, che il cielo rendeva estranea a ciò a cui ero abituato.

Un paesaggio lunare su cui erano sparsi cuscini violacei di silene, un altrove apparso dopo aver attraversato la soglia che separa la realtà dal sogno. Il vento costringeva i passi ad essere lenti.

Superato il ‘terzo portone’ ci trovammo davanti ad un grande nevaio a picco sulla valle sottostante dove il rifugio ‘Ciro Manzini’, nella sua bellezza naturale che lo rende elemento intimo di queste montagne come propaggine fuoriuscita da quelle rocce, accompagnava i camosci che si inerpicavano sul pietrisco incuriositi dal nostro passaggio. Lì, poco più in alto delle nostre teste, la cima ‘Tre Portoni’.

Ci arrampicammo per qualche metro. Il vento e gli zaini rendevano poco pratico l’utilizzo dei bastoncini, così si andò di mani. Mentre compivo quella breve salita comparve nell’animo la terza paura. Questa volta non permisi alle gambe di fermarsi.

Arrivammo alla cima ‘Tre Portoni’ poco dopo le 5 e mezza del pomeriggio. Percorremmo ancora per un po’ il sentiero sostando per l’ultimo riposo prima dell”Amaro’. Frutta secca e frutta disidratata, della cioccolata fondente e tanta acqua.

Intorno la luce rendeva tutto effimero. Sfumavano i contorni rendendo quel mondo un quadro vivo di Friedrich o un particolare raffaellesco. La paura stanca così lasciai cadere a terra lo zaino seguito dal mio corpo.

In quel breve riposo passò un uomo coperto fino alla testa per il freddo. Veniva dal ‘Cesare Pelino’ e procedeva a passo svelto per evitare il più possibile il prossimo buio e il montare del freddo che arrivava a sciabolate trasportate dal vento.

Riprendemmo. Ora tutto si era addolcito. Ancora un paio d’ore e avremmo toccato la croce stagliata sulla seconda cima più alta degli Appennini. I 2793 metri del Monte Amaro erano segnati sì dalla croce ferrea, ma soprattutto dal nuovo bivacco dedicato a Cesare Mario Pelino: un igloo dalla forma geodetica formato da 105 lastre di acciaio verniciato di rosso.

Bivacco Pelino - ph Fabio Picolli
Bivacco Pelino – ph Fabio Picolli

Era un altro pianeta. Eravamo stati trasportati su un pianeta lontano, aspro, nudo ma al contempo morbido e dal cammino dolce. E noi eravamo lì. Il cielo era polveroso e il vento incessante. Non si riusciva a vedere il regno sottostante. Anche quell’aria densa e pungente dava l’impressione di essere arrivati su un pianeta nuovo da esplorare.

Entrammo nel Pelino. Due dei dieci posti disponibili erano già occupati da due ragazzi di Bari. Erano saliti per la direttissima, che in questo periodo, senza neve, è complicata da seguire. Ci sistemammo per la notte prossima ad arrivare.

La storia di questo bivacco ha inizio quando le sezioni CAI di Roma e di Chieti ne decisero la costruzione nel 1888. Le condizioni meteo, però, ne consentirono la realizzazione e successiva inaugurazione solo il 24 luglio del 1890, con il nome di ‘Vittorio Emanuele II’. Allora era un rifugio di quasi 50 mq in muratura a secco composto da due camere che potevano ospitare fino a 10 persone. All’interno c’era anche una stufa a legna.

Purtroppo fu distrutto nel 1944 dai tedeschi in ritirata. La cima del Monte Amaro dovette attendere più di vent’anni per vedere realizzata una nuova struttura, questa volta un bivacco voluto dalla sezione sulmonese del CAI.

Venne inaugurato il 10 luglio 1966, ma una tempesta lo rase al suolo nella notte del 31 dicembre 1974. Le pietre che ne componevano la base sono ancora lì di fianco all’igloo. Quello presente oggi ha visto luce il 18 luglio 1982 e da allora è continuo oggetto di atti vandalici.

Questi luoghi sono sempre nodi di incontri e di storie. Erano le 8 di sera passate quando due uomini giovani e con pochissimo carico, se non un zainetto ciascuno, si affacciarono attraverso la porta sagomata del bivacco.

Escursionisti di ritorno dal Monte Focalone verso il bivacco 'Fusco' - ph Fabio Picolli
Escursionisti di ritorno dal Monte Focalone verso il bivacco ‘Fusco’ – ph Fabio Picolli

Praticavano Ultra Trail e si stavano allenando: avevano percorso 80 chilometri in quella giornata correndo cima cima, e avrebbero continuato per l’intera notte coprendone altri 40.

Parlammo per un po’ fino a quando posizionarono le torce frontali per proseguire immergendosi nel buio della notte.

La notte. Quella notte fu per me tremenda. Il vento faceva vibrare tutta la struttura riuscendo a intrufolarsi al di sopra del pavimento in legno. Era tutto un muoversi nel buio spesso di rumori, cigolii e del clangare delle giunzioni metalliche. Tremavo non solo per il freddo, ma soprattutto per le tre sensazioni di paura provate durante il giorno. Erano esplose tutte insieme in quella notte senza che potessi averne il controllo.

La mia anima era diventata il vaso di Pandora sul quale non riuscivo a mettere nuovamente il coperchio. Le tre paure mi tennero in allerta per l’intera durata di quel buio.

La mattina arrivò con una luce tagliente e tenera. Uscito scorsi il vallone di ‘Femmina Morta’, morbido nelle sue alture laterali dall’asperità desertica. Fredda. Era fredda quella mattina.

Rimasi per un po’ lì accorgendomi, poco a poco, di essere libero. Libero dalle oppressioni della notte appena trascorsa. Libero dalle paure che avevano avvinghiato a catene le mie gambe.

Il sole stava sorgendo lentamente su quel mondo. Ci mettemmo in cammino intorno alle 6. Era una domenica mattina, era l’alba di una nuova domenica. Parlai ad Antonio di quelle paure che mi avevano asserragliato il giorno prima, aspettando i tre passaggi in cui si erano presentate. Non accadde nulla. La libertà provata all’inizio di quel giorno si era rivelata veritiera.

I ‘Tre Portoni’ si presentarono nella luce bianca che saliva dal Focalone. Gli omini segnavia assunsero in quel biancore un aspetto tra il grottesco e il fatato, reso ancora più marcato dalla ‘silene a cuscinetto’ che li accompagnava sparsa. I camosci ci fecero compagnia in quel silenzio che raggiungeva la cima lì di fronte.

Fu da qui, dalla cima del Focalone, che si iniziarono a scorgere nuove presenze umane aumentando via via in numero sul sentiero verso il giallo ‘Fusco’.

Poco più in là, all’inizio della traccia che conduce al bivacco, è posta una targa su un grande ammasso di pietre:

Gian Luro. Il Signore ti ha preso tra questi monti che tanto amavi. Ora ti vedo felice nel silenzio solenne dei monti e del cielo dove presto ci ritroveremo per vivere eternamente insieme e felici. Silvia. Chieti 24/07/88.

Anima, questa, donata alle montagne. Alla ninfa Maja, signora di questa roccaforte di pietra.

La prima sosta del ritorno durò poco più di un’ora. Facemmo colazione perdendoci con i pensieri che abbracciavano la cime delle Murelle, il Monte Acquaviva e la valle che da loro ci separava.

Gli incontri furono singolari, ma tra questi il più simpatico fu quello con una anziana coppia di amici dallo stretto dialetto abruzzese. Sembrava di rivivere la telefonata dei fratelli Capone in una trasmissione di Paolo Bonolis.

Il caldo iniziò a divenire signore di questa giornata. Scendemmo verso Fonte Ghiacciata e da qui verso l’Acquaviva. La domenica aveva attirato tante persone lungo il sentiero. Del vento e del freddo su questo versante della Majella non ce n’era più traccia.

Il Blockhaus si avvicinava nel suo silenzio morbido e dolce ricoperto dal sempre nefasto pino mugo. Ecco la triforcazione: a destra inizia la via presa il giorno prima, a sinistra il sentiero che gira intorno alla cima ricongiungendosi alla precedente verso la Cappella.

Quale prendere tra le due? L’idea è il secondo sentiero. Leggero nelle sue forme, leggero come il passo dei due anziani che ci indicarono il terzo modo per oltrepassare la verde cima dalla pelle aguzza: salire su, lì dove su una grande piana è visibile la pietra bianca del fortino piemontese del ‘Blockhaus’, costruito nell’Ottocento per stanare i briganti e difendere quella parte d’Abruzzo dalla loro Santa Ribellione.

Il mugo blocca ogni passo, così come il polline che in nuvole gialle avvolge i nostri visi. È un’arma naturale questo piccolo albero. Coriaceo si arpionava allo zaino, al tappetino ormai con interi pezzi portati via dai rami, afferrava, con quelle dita sottili e nodose ogni parte del corpo.

Le gambe, ora stanche, forzavano quei blocchi, quegli ostacoli in cui rimanevano imprigionate. Non fu lunga la nuova salita, inaspettata e faticosa, ma non lunga.

Arrivammo in una piana verde di erba alta e soffice, come un unico grande vello posato lì sulla cima, circondata e ciuffettata dal piccolo mugo. Liberatorio il far cadere gli zaini e con loro noi, lasciando che la stanchezza fosse presa dalla terra e dalla roccia di quella cima.

Il Blockhaus ci liberò dai nostri pesi. Lo fece anche attraverso gli occhi: ci voltammo e la Majella esplose nel cielo che la sovrastava. Ciò che quello stesso cielo ci aveva nascosto il giorno prima, ora ci mostrava un’altra realtà ancora più potente, in cui non era la vastità sotto i nostri piedi a spingere i nostri spiriti verso l’immateriale, ma era la possanza dell’amalgama del tempo racchiusa nel massiccio che si stagliava di fronte. Terra, roccia, vento, elementi primordiali insieme fusi e rivolti verso le stelle ora nascoste.

Piccoli fiori si vedevano sporgere su quel tappeto. Ci incamminammo alla ricerca di quella fortezza di pietra. Eccoli i massi che segnano i suoi confini bianchi.

Su quei resti nel 2012 fu posta una targa:

Avamposto del neo-esercito italiano, il ‘blockhaus’ (casa di roccia) fu il termine usato per denominare i fortini militari costruiti nelle province meridionali dell’Italia per fronteggiare le azioni del brigantaggio post-unitario. Edificato tra il 1863 e il 1864. Fu utilizzato fino al 1866 da un drappello di 18 soldati con al seguito cavalli.

Non c’è molto da aggiungere. Non ci sono molte altre parole. In basso, lungo la costa del Monte Cavallo, avvolta tra la roccia e la bassa vegetazione che protesse i briganti, la Tavola che porta il loro nome vive guardando la misera sorte del fortino nascosto dalla stessa montagna per la vergogna.

Cerchiamo una bandierina segnavia per continuare il cammino. Un sottile palo di legno ci indica l’imbocco del sentiero che conduce alla piccola cappella.

Un sentiero solcato, scavato quasi in alcuni punti, al termine del quale una nuova targa ci ricordò di un’altra anima presa dalla montagna in sacrificio:

Un passo d’avanti all’altro silenzio, tempo e misura. In ricordo di Mario Tracanna. Gli amici. Giugno 2018.

Mario Tracanna era un imprenditore la cui vita ebbe qui fine. Fu lui a commissionare allo scultore Antonello Palmerio la realizzazione dell’opera in pietra bianca della Madonna della Neve nella cappella di fianco.

Salutiamo Mario dirigendoci verso il ‘Bruno Pomilio’, inizio e termine del nostro cammino dove le grandi antenne devastano quei 1888 metri della Majelletta. Un cammino, questo, che conserva il ricordo di molti che hanno donato, nel senso letterale della parola, la propria vita alla montagna.

Quanto raccolsi da quei passi? Quanto dal quel tempo? Ma soprattutto quanto ho dato? Quanto ho donato a questi luoghi, a queste montagne?

Il salire gradino dopo gradino la scala che conduce al cielo comporta la responsabilità di donare quanto ricevuto durante l’esperienza della salita. Comporta il ridiscendere quei gradini con una consapevolezza più matura, diversa e soprattutto donativa.

Lasciammo nel silenzio quei luoghi. Lasciammo ad altra vita l’assaporare il respiro della Majella.

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!