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Da Atomic Habits di James Clear

L’accezione negativa associata oggi al riposo è la conseguenza del significato attribuito alla produttività e al lavoro.

La classe dominante che «grazie al tempo del lavoro altrui può concedersi il lusso di “non fare nulla”» ha rivestito il lavoro di valore morale. Non più e non solo necessità economica: il lavoro è diventato ciò che dà significato alle nostre vite.

È quello che il giornalista Derek Thompson chiama workism, lavorismo, anche se questo termine è stato introdotto da Oates nel 1971 unendo le parole work e alcoholism per descrivere la dipendenza dall’attività lavorativa, ovvero la credenza per cui la realizzazione personale passa attraverso il lavoro, la tendenza a lavorare eccessivamente in modo compulsivo diciamo.

Tendiamo a considerare ammirevole lavorare senza sosta, mentre sviluppiamo sensi di colpa quando sentiamo il bisogno di riposare.

A partire dagli anni 70 sono state proposte molte definizioni, di cui alcune solo teoriche e non validate sperimentalmente e senza che tra i ricercatori venisse adottata una concezione condivisa di questo costrutto. In tal modo, purtroppo, è stata ottenuta una conoscenza dispersiva del fenomeno, invece di una condivisa.

Andiamo sul tema: in un paradigma che vede il workism come una dipendenza, i comportamenti di subordinazione dal lavoro possono avere la funzione psicologica di evitare sentimenti negativi o di regolarne l’intensità.

Anche l’essere caratterizzati da valori orientati al raggiungimento di obiettivi. a discapito di quelli di tipo interpersonale e relazionale, può portare a rivolgere i propri sforzi al successo lavorativo, con alti livelli di ambizione.

Ma è un’illusione: dedicare un numero smisurato di ore a lavorare porta non alla felicità di chi lo fa, piuttosto di chi vi si arricchisce.

Il tempo della classe lavoratrice è essenziale al mantenimento dello stato delle cose e della ricchezza di chi detiene il potere: è una bene, ed è ciò di cui il capitalismo si nutre.

Per questo, difenderlo non è un’azione individuale, ma una cura collettiva. In altre parole: è un atto politico. Il tempo dei lavoratori è una merce di cui si nutre il capitalismo, che di natura è cronofago.

Del resto, in molti ambienti di lavoro regna la convinzione che solo chi lavora tanto e con passione abbia diritto ad una vita di soddisfazioni e successo.

L’accezione negativa associata al riposo ne è una diretta conseguenza. Questo tipo di atteggiamento, di logica, di pensiero ha reso sempre più marginale il relax tra chi non può permetterselo.

Chi non ha altre forme di reddito oltre al salario, chi ha un contratto precario, chi oltre il lavoro retribuito svolge anche quello di cura, non solo lavorerà più del necessario, ma trascorrerà molto tempo fuori dall’ufficio in uno stato di preoccupazione.

Oggi abbiamo normalizzato il burnout, che, invece, è un problema di salute pubblica e di diritti umani. Purtroppo, lo si capisce da tanti fattori. Uno, banale ma non tanto, è che nel DSM-5 non è presente alcuna sindrome da workaholism.

Da cosa si riconosce la persona workaholic? Il primo è chiaro: viene volontariamente dedicato al lavoro molto più tempo. Esso è uno strumento, per così, dire, utilizzato per la gestione del senso di colpa, della depressione o dell’ansia.

Diviene fonte di costanti pensieri e preoccupazione, addirittura si patisce stress come conseguenza del non poterlo svolgere. Sport, hobby e attività piacevoli, insieme alla famiglia, sono messi da parte. Si tratta, quindi, di una dipendenza comportamentale diffusa e la cui analisi, se guidata da un unico riferimento concettuale condiviso dai ricercatori, potrebbe favorire una miglior comprensione delle sue caratteristiche, del suo decorso e delle strategie efficaci, sia a livello preventivo che clinico.

Molti studi, negli ultimi anni, hanno analizzato l’impatto che il workaholism può avere sia sulla persona che sul suo ambiente familiare e lavorativo. La maggior parte dei ricercatori, però, nonostante certi studi abbiano evidenziato come il fenomeno possa essere associato anche ad aspetti positivi, quali il work engagement, hanno preferito una visione unicamente negativa del costrutto, senza analizzare, quindi, il diverso effetto sulla salute dell’individuo e sull’organizzazione dei diversi tipi di workaholism, ad esempio, associati o meno a work engagement.

Sono stati identificati tre profili di workaholics, ovvero di soggetti maniaci dal lavoro: work addict, il dipendente da lavoro, che mostra elevato impegno e motivazione, ma poco piacere nel lavorare; enthusiastic addict, l’entusiasta, che manifesta elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione; work enthusiast, l’entusiasta del lavoro, che possiede marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

La motivazione al successo, in particolare, può essere definita come la necessità di realizzare obiettivi complessi ed ambiziosi, che richiedono il superamento di ostacoli, di pensare e agire rapidamente, accuratamente ed in maniera autonoma, oltre che competere e superare gli altri, ottenendo un riconoscimento immediato e la ricompensa ai propri sforzi.

La credenza di essere più capaci di gestire compiti di lavoro piuttosto che attività extralavorative può portare i dipendenti a dedicare tutto il tempo a loro disposizione alle mansioni lavorative con lo scopo di evitare tutte quelle funzioni nelle quali ritengono di essere meno abili.

La workaholism può svilupparsi quando i dipendenti percepiscono che il lavorare oltre l’orario di lavoro anche a casa, nei fine settimana o durante le vacanze, sia considerata una condizione indispensabile per il successo e l’avanzamento di carriera.

La combinazione di questi valori percepiti da parte dei dipendenti nel loro ambiente di lavoro è descritta con il termine overwork climate, ovvero la percezione di un clima organizzativo in cui è richiesto un maggior sforzo per il raggiungimento del successo.

L’overwork climate sembrerebbe favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia.

Recenti studi hanno rivelato un aumento significativo della workaholism quando i dipendenti che possedevano le caratteristiche individuali predisponenti la dipendenza da lavoro, percepivano un overwork climate nei loro luoghi di lavoro.

Inoltre, la coscienziosità e l’autoefficacia risultavano correlate alla workaholism, ma solo in presenza dell’interazione con la percezione del overwork climate.

Tali risultati contribuiscono alla concettualizzazione sulla workaholism dimostrando empiricamente che un ambiente professionale caratterizzato da un clima organizzativo con delle eccessive richieste può favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto per coloro i quali mostrano un’elevata motivazione alla realizzazione, al perfezionismo, alla coscienziosità e all’autoefficacia.

Tutto questo degenera in una condizione che può solo portare a disagi e complicazioni psico-fisiche: infatti, lo stress lavorativo può essere definito come un danno fisico e una risposta emotiva che interviene quando le caratteristiche del lavoro non corrispondono alle capacità, risorse o bisogni dei lavoratori.

Esso è uno stato di prolungata tensione che può ridurre l’efficienza sul lavoro e può causare gravi problemi di salute psicologica e fisica.

Lavorare sotto una certa pressione per un breve periodo può migliorare le prestazioni e, quando si raggiungono obiettivi impegnativi, può anche produrre effetti psicologici positivi, quali un aumento della soddisfazione lavorativa, motivazione e senso di autoefficacia personale.

Al contrario, nel momento in cui le richieste e la pressione diventano eccessive e prolungate, queste possono causare stress e gravi problemi di salute mentale e fisica.

Cosa fare?

Potrebbe essere più utile per le organizzazioni, creare, ad esempio, un ambiente che non premi il lavoro correlato ad un comportamento compulsivo, piuttosto sensibilizzare i manager e i dirigenti, quindi le categorie più vulnerabili alla workaholism, a promuovere una serie di modelli comportamentali che favoriscano un equilibrio tra occupazione e vita sana, stimolando un lavoro intelligente ed efficace ma sicuramente meno estenuante.

Potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo, che rendano il lavoro più produttivo.

Ed infine, promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente, raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative. Non più a tempo pieno ma a tempo effettivo e corretto.

È abbastanza difficile essere efficienti senza essere dannosi.
Kin Hubbard 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.