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Le notizie del Diavolo

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Le notizie del Diavolo


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La stampa non vuole informare il lettore, ma convincerlo che lo sta informando.
Nicolàs Gòmez Dàvila

La realtà in cui viviamo si sviluppa su molteplici livelli, ognuno con un proprio grado di complessità che concorre a definire la nostra società per come la percepiamo.

Non più soltanto giornali e telegiornali, ma anche e soprattutto Internet e social network: questi i canali che utilizziamo per aggiornarci su ciò che accade in Italia e nel mondo.

Saper filtrare le informazioni presenti in rete è una competenza da non sottovalutare, che bisogna necessariamente acquisire: di questa opinione era Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore, morto nel 2016.

Nel ricevere la laurea honoris causa in Comunicazione all’Università di Torino, l’autore de ‘Il nome della rosa’, parlò proprio di questo:

I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel.

Nel 2016, l’Oxford English Dictionary incoronava parola dell’anno post truth, definita come relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali.

Da allora, la questione della disinformazione e delle fake news ha fatto un salto in avanti tale da divenire chiave di lettura della realtà contemporanea e da essere considerata, forse, il più grande dei mali.

Le notizie del diavolo, come vengono chiamate le fake news, non nascono con Internet ma sono antiche quanto il mondo. Dagli albori della guerra di Troia, fino alle manipolazioni digitali di oggi e all’uso spregiudicato degli algoritmi, l’ombra oscura della disinformazione, simile ad un veleno inodore e insapore, accompagna ed avvelena ogni tipo di nostra comunicazione, privata e pubblica, giornalistica e scientifica, letteraria e commerciale.

Prolungando in forme diverse l’arte della guerra e della politica, la disinformazione si è ingigantita, insieme con lo sviluppo dei mass media, e oggi ha raggiunto il culmine attraverso il mezzo digitale.

Nessuno può sperare di esserne immune e, anzi, come si usa dire a proposito del diavolo, uno dei suoi trucchi è quello di far credere che non esista.

Possiamo dirlo: i media digitali e i social network, in questi anni, hanno concorso a intensificare le comunicazioni. Per un verso, queste piattaforme sembrano realizzare una liberalizzazione dei processi informativi, per l’altro, possono diventare l’habitat più congeniale alla diffusione delle fake news e/o fungere da volano all’hate speech.

Se la varietà di media può favorire maggiori possibilità di informarsi, c’è anche il rischio concreto che la qualità dell’informazione di abbassi.

Come ha dichiarato al Washington Post Jay Rosen, docente alla New York University:

Internet rende possibile una maggiore quantità di contenuti e consente di raggiungere tutti i tipi di persone. Ma fa anche diffondere la disinformazione.

Veicolare i contenuti in modo rapido, divertente e diretto sicuramente risulta accattivante per il pubblico, ma non sempre le notizie pubblicate sui social sono vere. Anzi, gli aggregatori come i social possono amplificare la diffusione di fake news, perché chiunque è in grado di pubblicare.

In effetti, con l’avvento dei social media è scomparso il solco che divideva mondo reale e mondo virtuale, consentendoci di identificarli abbastanza nettamente.

Oggi quello che troviamo online è un mondo post-verità, al cui interno le notizie deliberatamente false o distorte sono usate per orientare anche in maniera significativa le decisioni individuali, soprattutto in relazione allo scontro politico e alle scelte elettorali.

Fake news è solo un nuovo modo per definire i processi di disinformazione che da sempre sono presenti nella sfera pubblica. Eppure, si potrebbe dimostrare come la principale fabbrica di fake news non sia la prateria della rete ma il potere stesso, Big Brother, che controlla i flussi di opinione, fabbrica il consenso, manipola la realtà, veicola le masse e punisce il dissenso come psicoreato.

Il tema è scomodo e, per questo, il cosiddetto mondo mainstream tende a ignorarlo, eppure è imprescindibile se la stampa vuole essere uno strumento di riflessione critica della nostra società, se davvero i cittadini vogliono evitare il rischio che l’incubo di Orwell sull’omologazione delle menti e l’instaurazione di una censura di fatto diventi realtà.

Oggi si combatte troppo la battaglia dei contenuti, che traduce bene il peso che i valori morali occupano nel discorso giuridico: tra fake news, hate speech, diffusione di teorie pseudoscientifiche che contestano il sapere ufficiale, viene offerto un quadro della libertà di espressione online per nulla positivo.

La sovrabbondanza informativa e le nuove forme di propaganda politica hanno un impatto rilevante anche sulla democrazia, così come, a suo tempo, lo ebbe la televisione.

Si sta diffondendo un pessimismo democratico, che vede nella categoria del populismo digitale un nemico assoluto. Il punto è salvaguardare quel nocciolo duro della democrazia che consiste nell’essere procedura minima a garanzia dell’autonomia di individui liberi e uguali: luogo di raccolta delle opinioni e non della loro paternalistica formazione.

Un’altra causa di diffusione delle fake news è il costo per la produzione di notizie di alta qualità: le compagnie di media faticano a guadagnare dalla pubblicità online, ma siti meno affidabili si basano sul clickbaiting e generano maggiori contatti, anche se offrono informazioni di scarsa qualità. Questo sistema minaccia la credibilità del giornalismo online.

Inoltre, sul web nascono sempre più siti che aggregano informazioni già prodotte da altri, piuttosto che contenuti originali. E questo sistema, noto come content curation, amplifica il rischio di diffondere informazioni non corrette, perché ci si distanzia sempre di più dalle fonti originarie ed è sempre più difficile mettere in atto delle verifiche accurate.

Oramai si sa, la rete è colma di fake news e contenuti che generano entropia, andando in direzione opposta a ciò che dovrebbe essere lo scopo dell’informazione, ossia ridurre l’incertezza.

È uno scontro impari quello tra social e giornalismo, ma per tutti è importante che quest’ultimo si ricentri sulla qualità. A livello della singola disinformazione, il danno ricade su quei soggetti che, avendola presa in considerazione come autentica, hanno agito, subendo, per questo, conseguenze negative.

A livello di sistema, il danno di tutta la disinformazione è collettivo: dall’aumento dell’incertezza ad una sospensione, sempre più estesa, di fiducia verso la comunicazione.

Il fulcro della professione giornalistica è sempre l’informazione: in entrata, verificata anche da incroci della stessa e, in ristrettezza dei tempi, da fonti attendibili o autorevoli; nell’elaborazione interna, secondo processi di news making, che non riguardano solamente il singolo operatore, attraverso negoziazione e coordinamento con una redazione per gli spazi, profili e approfondimenti; in uscita, con caratteristiche formali, per l’identificazione dei contenuti ed il riconoscimento della sezione – politica, esteri, cultura -, anticipazioni in prima pagina e chiarezza espositiva nei titoli, sommario e articolo.

Il tutto sul solco di una precisa linea editoriale, che incarna l’identità di una testata.

Il giornalismo, anche nell’era dell’informazione digitale, rimane un servizio in risposta ad un diritto e bisogno dei cittadini di essere informati: importante che le dighe di professionalità e correttezza non crollino sotto la competizione, in termini di pubblico, del fiume in piena dei social.

Il giornalista è colui che distingue il vero dal falso… e pubblica il falso.
Mark Twain

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.