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Ecce Bomba

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L’uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi.
Albert Einstein

Un sole del diametro di 200 metri squarciò il buio che sovrastava il deserto del Nuovo Messico. Siamo negli stati Uniti, è il 16 luglio del 1945. Stiamo parlando di Trinity, la prima bomba atomica, frutto del programma di sviluppo denominato Progetto Manhattan.

A capo di quella missione c’era il Generale americano Leslie Groves: con lui un’équipe di scienziati che erano stati confinati nella cittadella “fuori dal mondo” e blindata di Los Alamos, a capo dei quali c’era il tedesco Robert Oppenheimer. Ricordiamoci che gli Stati Uniti misero insieme un gruppo di luminari per realizzare quello che è passato alla storia con il nome di progetto Manhattan.

Era il 1939 e il Presidente Roosvelt aveva formato una squadra di ricerca esclusiva, composta dalle menti dei più brillanti scienziati dell’epoca, tra i quali anche l’italiano Enrico Fermi. Si giocavano gli equilibri della Storia in quei giorni, tutti ne erano più o meno consapevoli.

La bomba era stata creata per uccidere Hitler che, nel frattempo, si era suicidato nel suo bunker nella fredda e agghiacciante Berlino. La guerra, però, non era ancora finita. Gli USA capirono quel giorno di possedere un’arma apocalittica. Quell’ordigno aveva la potenza equivalente di circa 20mila tonnellate di tritolo, ovvero 20 chilotoni. Poteva incenerire una città intera. La palla di fuoco veniva scatenata dalla fissione atomica di una sfera di plutonio.

A Washington credevano che solo la Gran Bretagna fosse a conoscenza di quegli esperimenti e di quella diabolica invenzione; si sbagliavano, anche l’Unione Sovietica, grazie al lavoro delle sue spie, invece, sapeva tutto. Addirittura, c’era chi temeva che quel test potesse scatenare un devastante esplosione multipla con ripercussioni incontrollabili.

La notizia arrivò a Harry Truman che presidiava Conferenza di Potsdam con Winston Churchill e Yosif Stalin. I primi due avevano già concordato il bersaglio di quella bomba: l’obiettivo era il Giappone. Va anche ricordato che, dopo l’attacco di Pearl Harbor, l’impero nipponico si ritrovò in una situazione di enorme vantaggio nei confronti degli Stati Uniti.

Già nel gennaio 1942 la Marina Imperiale stava sviluppando, con enorme successo, delle campagne di conquista in Malaysia, Birmania, Filippine e Indie orientali olandesi senza che gli USA potessero in alcun modo impedirlo.

Così recitava il testo del messaggio in codice recapitato al Presidente Truman che annunciava l’esito positivo del lancio della bomba atomica in Nuovo Messico:

I bambini sono nati felicemente.

Il Giappone era il terzo Paese dell’Asse, quello che ancora resisteva. Serviva la sua resa per estendere una pace duratura nel mondo. L’assurdo del mezzo per raggiungere il fine.

Erano gli albori della Guerra Fredda, con l’Occidente che credeva di aver fatto fuori l’Oriente, o una parte di essa, e che guardava all’Est con la forza e l’arroganza di chi supponeva di avere nelle sue mani una arma micidiale tale da poter ricattare i russi e le loro insidie. Eppure, è provato che il Giappone era pronto alla resa.

Infatti, il peggioramento della situazione aveva spinto l’Imperatore Hirohito a convocare il Consiglio Supremo di Guerra per trovare alternative al continuo della guerra e tentare una via di uscita. Le possibilità erano quattro: trattativa diretta con gli USA, chiedere alla Russia di fare da mediatori, la diplomazia di corte che chiamava in causa il Re d’Inghilterra e, in ultimo, la via diplomatica interna provando con i canali statunitensi.

Tornando al Primo Ministro britannico, Churchill temeva i russi: lo impauriva l’avanzata dei soldati in Germania. Nacque così la segretissima Operazione Unthinkable, che prevedeva un attacco preventivo alla Russia qualora diventasse sempre più forte la sua presenza nel territorio tedesco, onde evitare un’eventuale invasione a tutta l’Europa.

Truman, a sua volta, di quello che stava accadendo nel New Messico, dei preparativi non sapeva molto. Solo dopo l’esperimento nel deserto, si trovò di fronte alla decisione di usare o meno la bomba come mezzo ‘finale’ per persuadere il Giappone a chiedere la fine di ogni ostilità. Da una parte i suoi consiglieri molto esitanti, dall’altra i militari già logori dalla guerra ma, allo stesso tempo, memori dell’attacco a Pearl Harbor, che volevano chiuderla definitivamente ed erano convinti che con l’atomica avrebbe dato la parola fine a tutto.

Durante quel dibattito, e un mese mezzo prima del test in New Messico, ci fu chi cercò di risparmiare moltissime vite umane: era il fisico Arthur Compton, che propose di avvertire i giapponesi della potenza della bomba, facendola esplodere in un punto disabitato del loro territorio.

Oppenheimer proponeva, a sua volta, di ‘gettare’ la bomba su una città non toccata da nessun attacco, non colpita: bisogna far risaltare l’effetto distruttivo, allora meglio una città che non era stata mai toccata dai bombardamenti.

Nel rapporto Franck, redatto da una commissione voluta dallo stesso Presidente americano, si chiedeva di dare una preventiva dimostrazione con il lancio di un’atomica su di una isola deserta, così da far capire ai giapponesi il rischio che avrebbero corso nell’insistere in un conflitto che oramai li vedeva con le spalle al muro. Nulla a valse anche questa iniziativa.

Fu deciso a Postdam e, gioco della Storia, la decisione fu presa per arginare proprio l’URSS. Il timore che potesse sferrare l’attacco all’intera Europa era forte, così come una futura terza guerra mondiale. L’impasse nipponico e l’atteggiamento ambiguo dei russi determinò l’azione successiva: la mattina del 6 agosto 1945, il B-29 Enola Gay al comando del maggiore Paul Tibbets sorvolò Hiroshima e sganciò Little Boy.

E pensare che fu il cielo terso a determinare la scelta di Hiroshima. Era stata scelta Kokura: il cielo velato dalle nuvole fu la sua salvezza sia il 6 sia il 9 agosto, quando una seconda bomba colpì Nagasaki.

La Storia, lo sappiamo, non si fa con i se: però se fossero prevalse le linee più ‘leggere’, si sarebbero risparmiate circa 200 mila vite a Hiroshima e 80 mila a Nagasaki, nei ‘circa’ si nascondono ossa sperse o illiquidite, identità dissolte e approssimazioni necessarie ad ammettere la scienza statistica. E pensare che il Giappone imperiale si sarebbe arreso poi lo stesso, se non il 15 agosto qualche settimana dopo.

Il fallimento della guerra aveva fatto capire ai sudditi di Hirohito

come la via dell’aggressione non fosse, dopo tutto, la più adatta per procurarsi onore

sicché decisero ad abbandonarla.

Neanche venticinque anni dopo Yukio Mishima l’avrebbe accettato. Ma era la minoranza.

Sono passati ora 77 anni da quel tragico evento, che stravolse le vite di milioni di persone innocenti. Il 6 e il 9 agosto, gli Stati Uniti cancellarono vite umane in pochi secondi con l’utilizzo della bomba.

Oggi lo spettro della bomba atomica torna ad incutere paura, questa volta in Europa. Lo zar Putin è sempre minaccioso: vuole utilizzare tutta la potenza militare russa contro l’Ucraina e chiunque mostri anche solo un minimo di ostilità verso di lui o che voglia appoggiare il suo nemico. Più volte Putin ha ribadito alla NATO e all’Europa intera che possiede un arsenale bellico di tutto rispetto, comprendente anche il nucleare, e non si farà scrupoli ad usare la bomba atomica, se sarà necessario.

Anche se resta un’ipotesi molto improbabile perché comporterebbe la distruzione dell’intero pianeta, la paura è un crescendo senza musica. Il 6 e 9 agosto del 1945 hanno posto l’umanità e il pianeta di fronte ad un nuovo orologio, che batte i minuti che restano alla nostra civiltà per la possibilità reale dell’autodistruzione totale.

È assurdamente incredibile, ma l’esito traumatico dello scoppio di quelle due bombe, sperimentate direttamente e indistintamente sulla popolazione delle due città giapponesi, non ha fermato la comunità scientifica, politica e militare delle varie potenze. E oggi siamo punto e a capo. Purtroppo, dal paleolitico in poi, l’arte della guerra consiste nel miglioramento delle armi basiche: la lancia e lo scudo.

Dopo la Seconda Guerra mondiale gli Stati occidentali si sono consacrati più allo scudo: come vanificare e intercettare, dando preferenza a ciò che può servire per proteggere gli obiettivi civili e militari e per neutralizzare ogni attacco. Putin, è chiaro, se ne infischia di questa teoria: lui vuole colpire per prima in maniera da traumatizzare il nemico.

Le conseguenze? Non so se avremo mai di capirle. L’incubo del fungo che si alza al cielo è tornato. La Storia si è seduta ad aspettare.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.