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Face or no face

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Ore nere, ore sospese. Il lockdown breve dei social. La vuota memoria di chi siamo e cosa sarà di noi. Le parole spezzate, l’incognita che si cela dietro la mano che non sa digitare.

Dove sono gli altri, i miei e i vostri fantasmi? Dove volano ora le lettere che nessuno legge e chissà se arriveranno mai. Il lunedì più nero per chi ha l’anima multimediale.

È stato il lunedì nero di Facebook, già frastornato fra dalla rivelazione della talpa Frances Haugen e poi annichilito dallo stop delle sue piattaforme per ore.

Al povero Mark Zuckerberg è costato più di sei miliardi di dollari. Con il calo dei titoli Facebook a Wall Street, la ricchezza di Zuckerberg è scesa a 121,6 miliardi di dollari, secondo il Bloomberg Billionaires Index, facendo scivolare al quinto posto, alle spalle di Bill Gates. Diciamo che sopravviverà, forse rivedendo la paghetta dei figli.

Cosa è successo: la sera di lunedì 4 ottobre Facebook e tutti i servizi di proprietà della stessa azienda, compresi Instagram e WhatsApp, sono stati inaccessibili agli utenti di tutto il mondo per più di sei ore, a causa di un malfunzionamento che ha provocato una delle più grandi crisi della piattaforma social negli ultimi anni. Sua maestà il New York Times ha scritto che Facebook nel giro di qualche minuto era sparito da Internet.

Già nel pomeriggio di lunedì vi erano state delle avvisaglie. La situazione è tornata alla normalità solo durante la notte. Il malfunzionamento delle piattaforme controllate dall’azienda di Zukerberg ci ha fatto capire, qualora non ve ne fosse stato ancora bisogno, di quanto il demone social fosse forte e presente dentro di noi: la sua importanza equivale per alcuni ad una urgenza fisica oltre che “psichiatrica”.

Soprattutto, e vi prego di non sottovalutarlo, c’è la necessità di assicurare la persistenza di servizi da cui in qualche modo dipendiamo: è una priorità assoluta, per la democrazia, per il mercato e per tutti noi. C’è una verità profonda: in un modo o nell’altro, la nostra società è divenuta dipendente dai servizi offerti da Facebook e i social che gravitano nella sua orbita.

Fra lavoro e famiglia è l’anello di congiunzione tra quello che siamo e quello che ci occorre, un ponte che tiene unito l’essere con l’avere. La più brutale e terribile trasformazione che ha subito la nostra mente e il nostro corpo. Siamo automi prescelti di un mondo in cui il surrogato è realtà e la realtà è fiction. Meraviglioso quanto subdolo.

Al momento sia Facebook sia gli osservatori e gli esperti esterni sono concordi nell’affermare che la causa dei malfunzionamenti non sia da ricercare in un attacco informatico: si è trattato di un problema tecnico piuttosto complesso.

I servizi di Facebook sono utilizzati globalmente da 3,5 miliardi di persone, non soltanto per comunicare e condividere contenuti ma anche per lavorare: in molti Paesi Facebook, Messenger e WhatsApp hanno una rilevante utenza business che usufruisce dei servizi per gestire il proprio negozio o la propria attività.

Facebook vende anche servizi di automazione delle abitazioni usati da milioni di persone per gestire televisori, termostati e altri apparecchi, che sono stati irraggiungibili fedelmente come le piattaforme social. Se i malfunzionamenti di uno o due dei servizi controllati da Facebook non sono molto rari, va detto che assai meno comune che tutti e tre finiscano di funzionare simultaneamente. Eppure, è già successo: l’ultima nel 2019.

Il ripetersi di questi guasti tecnici è un grave problema per la reputazione dell’azienda, in passato già accusata di possedere un’infrastruttura poco stabile. Qualcosa non ha funzionato è chiaro, qualcosa di complesso e complicato. Quando accadono questi eventi poi arrivano i seguaci del complottismo a sviscerare ogni teoria possibile.

Lunedì anche gli impiegati di Facebook hanno vissuto il panico: le comunicazioni interne sono state impossibili, quindi si sono visti costretti a sfruttare i servizi concorrenti, come FaceTime di Apple o Telegram o Signal.

Addirittura, i tecnici mandati negli edifici dove Facebook conserva i propri server per capire dove fosse il problema sono stati in qualche caso tenuti fuori dal sistema di ingresso automatico. Strano ma vero.

Dopo più di sei ore, è arrivata la giustifica del colosso: si è scoperto che dei cambi di configurazione nei router principali che coordinano il traffico tra i loro data center hanno provocato problemi che hanno sospeso le comunicazioni. Questa interruzione al traffico di rete ha avuto un effetto domino sul modo in cui i data center comunicano, e ha portato al blocco del servizio.

Si è identificato il problema nei protocolli BGP – border gateway protocol: questi sono come mappe che indicano il percorso che i dati di un utente devono fare per raggiungere Facebook, e viceversa, nel modo più rapido ed efficace possibile. Se le mappe non funzionano, i dati non sanno dove andare, e Facebook diventa irraggiungibile.

Secondo alcuni esperti, i primi problemi ai BGP sarebbero stati realizzati da errori in un aggiornamento di routine, che poi ha determinato danni a cascata. I malfunzionamenti dei BGP hanno causato problemi anche ai DNS, domain name server, ovvero il sistema che serve a fare in modo che i nomi dei siti, come www.ilpost.it, corrispondano proprio ai contenuti di quel sito, traducendoli in indirizzi IP. In pratica, se i BGP sono le mappe di una rete, i DNS sono gli indirizzi.

Per me è più facile spiegare la liquefazione miracolosa del nostro Gennaro. Cosa si può aggiungere a questo quadro di insieme se non che la nostra quotidianità è scandita in qualche modo dalla comunicazione istantanea offerta da Facebook o dagli altri social?

Allo stesso tempo, però, la rete Internet a cui ci appoggiamo è estremamente fragile. Come tutta la nostra vita, che lasciamo immaginare nella sua inconsistenza allo specchio del virtuale. Fragile come la paura che basta un server a bloccare un intero compartimento lavorativo e creare panico tra le borse del mondo. Oscillante spada che pende sulle nostre teste con l’ingenua convinzione che si auto riproduce tra l’effimero e l’ovvio.

Ci resta, anche se temporaneamente, lo spostamento dell’attenzione di miliardi di persone che ci spinge a riflettere sulla relazione con questi siti. Un esame di coscienza che dura il tempo dell’assenza e del delirio. Senza contare le conseguenze economiche: a causa del blackout, per molte attività, ad esempio nel marketing digitale, non è stato semplice sopportare un’improduttività simile.

Oltre al malfunzionamento, Facebook è sotto l’occhio del ciclone anche per altre ombre gettate da Frances Haugen, ex manager dell’azienda, che ha attaccato duramente il social di Mark Zuckerberg davanti al Congresso, tuonando:

Il social alimenta la divisione, danneggia i bambini e indebolisce le democrazie. È necessario un intervento politico che regolamenti questa crisi.

Parole forti e decise che possono dire tutto e non svelare nulla. Frances Haugen ha consegnato una ricerca interna ai legislatori e al Wall Street Journal sul modo in cui il social network gestisce contenuti e rischi per gli utenti. Le accuse si sono concentrate soprattutto sul rapporto che i più giovani hanno con i social: il 6% dei bambini sarebbe dipendente da Instagram tanto da esserne danneggiati materialmente.

Le ricerche di Facebook mostrano che oltre il 6% dei minori ammette di essere dipendente da Instagram al punto tale che la loro salute e il loro rendimento scolastico sono deteriorati. In altre parole, Facebook non è riuscita a proteggere i suoi utenti mettendo in secondo piano il loro benessere a favore del profitto.

La risposta di Marck Zuckerberg è stata netta:

Noi ci preoccupiamo profondamente di questioni come la sicurezza, il benessere e la salute mentale.

(…) Al livello più elementare penso che molti di voi non riconoscano la falsa immagine della società che è stata dipinta.

(…) Facciamo soldi con le inserzioni e gli inserzionisti continuamente ci dicono che non vogliono che i loro annunci siano vicino a contenuti dannosi o furiosi. Non conosco alcuna azienda tech che vuole realizzare prodotti che rendono le persone arrabbiate o depresse. Morale, business e incentivi sui prodotti puntano tutti nella direzione opposta.

Insomma, il potere della nostra vita è in mano ad un’azienda che ha semplicemente un giorno creato un social dove, gradualmente, milioni di persone si sono affidate, confidando ogni segreto della loro esistenza. Le violazioni e gli abusi sono stati assecondati e accettati.

Abbiamo venduto l’anima al diavolo per due like e qualche cuoricino. E si sa che il diavolo ama barare. È il suo mestiere, la sua missione del resto; il suo inganno è di farci credere che il paradiso esiste solo se assecondiamo l’inferno in noi. Face or no face.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.