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La casa della fotografia a Budapest


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La casa della fotografia a Budapest

Cerco nelle immagini degli altri la storia della loro vita, e in fondo anche della mia.
Con questo spirito tutte le volte che intraprendo un viaggio, anche dietro l’angolo, mi ritrovo dentro i luoghi della fotografia. Uno degli ultimi che mi hanno catturato è la casa della fotografia di Budapest. Si tratta di un posto pieno di suggestioni magiche. Innanzitutto per il palazzetto che lo ospita. Un vero e proprio monumento alla fotografia.

Una celebrazione che parte dalle intenzioni del suo committente per la realizzazione, Manó Mai, il quale ha voluto persino i puttini della facciata armati di un apparecchio fotografico. Si tratta di un monumento della storia nazionale, dal momento che è qui attualmente che trovano alloggio le opere dei più grandi fotografici ungheresi e non, in un’esposizione che cambia ciclicamente.

L’Ungheria può vantare di essere il Paese che più ha dato i natali a fotografi di fama mondiale.
Qui infatti sono nati e cresciuti i fratelli Robert e Cornell Capa, André Kertész, Lászlo Moholy-Nagy, Brassaï, Martin Munkácsi, György Kepes, Stefan Lóránt, Ferenc Berkó, il Premio Nobel Miklós Muray inventore dell´olografia, Dénes Gábor. E tanti altri ancora.

Sono poche le nazioni che hanno generato così numerosi talenti di uno stesso genere artistico, valenti maestri che hanno dovuto emigrare per poter diventare famosi, a differenza di coloro che sono rimasti in patria e che non hanno potuto ottenere una notorietà internazionale.

Uomini che hanno immortalato sulle pellicole fotografiche tutto il mondo, oltre a portare la propria Budapest ovunque. Un monumento questo museo che oltre ad essere una moderna casa per mostre molto importanti (ospiterà le fotografie di Vivian Majer da ottobre 2017 a gennaio 2018) è nello stesso tempo un tempio per le storie familiari di tanti ungheresi.

Appena oltre l’ingresso infatti troviamo le reliquie fotografiche di bambini e madri anni Trenta, che conservano tutta la dolcezza delle immagini d’infanzia. Si tratta delle immagini realizzate proprio dal su citato Manó Mai.

Proprietario originale dell’edificio, Manó Mai, fotografo del corteo imperiale e reale (1855-1917), nel suo tempo era uno dei migliori fotografi nel realizzare ritratti infantili. Ottenne il titolo “fotografo della corte imperiale e reale” nel 1885.

Il suo status nella comunità professionale di quel tempo era incontrastato. Fondatore e redattore del periodico chiamato “A luce” (La luce, lanciato nel 1906).

L’atmosfera del palazzo mi ha catturata subito. Ero ai primi del secolo e stavo entrando accolta da un ingresso che in omaggio alla mia italianità mi diceva subito “Salve”.
Alle pareti foto di bambini che, probabilmente, nella migliore delle ipotesi oggi sono i nonni di qualcuno…

L’aria era carica di promesse dagli arredi all’atrio, dalle foto appese alle didascalie che campeggiavano a corredo della cornice, didascalie che, oltre a decretare la paternità della foto, aggiungevano pure la pubblicità dello studio:

nelle immediate vicinanze di Andrássy út.

Mi rendo conto che cerco qualcosa di più del senso dell’inquadratura, della luce perfetta. Guardo la foto come se i soggetti mi parlassero, quasi nonostante la loro volontà che certamente era quella di lasciare un traccia di sé.

Tutto della foto mi racconta qualcosa: la posizione assunta all’interno della composizione familiare. Quanto la madre è vicina al marito e la figlia primogenita esposta solo dopo il figlio maschio, sebbene più piccolo di età. La bambinaia di lato: si riconosce dalle vesti non adeguate a quelle dei signori, ma altrettanto necessaria alla foto per raccontarci che di soldi in questa famiglia ce ne sono. E la moda dei baffi lunghi e dei cappelli a larghe tese. Mi sembra quasi di poterne sentire gli odori.

Insomma pensieri in libertà che mi dicono cose diverse, che mi trasportano lontana da dove sono in quel momento, con la mia maglia a righe verdi, ed in fondo mi sento fuori posto io piuttosto che trovare un po’ ridicoli i soggetti delle foto. Come quando ci guardiamo in un’immagine scattata trent’anni prima e vorremmo dire due paroline a mamme e zie per averci conciato in maniera così ridicola, quando non potevamo difenderci.

Lo so. Sto divagando: ed è così bello poterlo fare! Non ringrazierò mai abbastanza questo spazio e tutti voi che mi consentite di tenerlo e mi leggete ed accettate di venire dietro a queste mie divagazioni come si fa con gli amici. Insomma grazie. Perché è il modo in cui ho scelto di raccontare questo museo che mi ha costretta ad entrare ed uscire dalle epoche e da me.

Lasciavo, così, l’inizio del secolo ed il piano terra, e mi costringevo ad andare al primo piano, superando stoicamente l’ammezzato, nel quale vi è il punto della vendita di introvabili libri fotografici e cartoline d’eccezione, in realtà rimandando gli acquisti al ritorno, anche per non essere appesantita nella visita dalla spese.

L’ingresso dello studio al primo piano è SPETTACOLARE! Anche la bigliettaia, una giovane e favolosa biondina che illustra percorsi e modalità di comportamento. Salgo rapita la scala e parlo al vecchio Manó Mai, facendo rime cretine col suo nome tra me e me, tipo: Ma-no, ma Dài, Ma no… MAI!!

Sento l’aria di rivoluzione che deve aver provato nel progettare questo spazio, nel metterci la sua arte, nel creare spunti e opportunità per raccontare e raccontarsi. Una proiezione sulle sue foto mi tiene ferma e seduta (la vedo tre volte) una buona mezz’ora, mentre i miei accompagnatori ripassano a cercarmi almeno due volte, incitandomi a staccarmi dagli anni Trenta.

A malincuore lascio le campagne ungheresi ed i loro racconto, lascio la costruzione della città di Pest che si allarga verso Buda (e il contrario), lascio non senza rimpianti il mio monologo sfottò con Manó Mai, che comunque manco mi regge più pure lui, e mi avvio nello studio.

Il regno della luce e dei fondali. Tanto spazio ed un lucernario che mi fa felice. Felice.
Mi metto in mille pose: sono estatica, impegnata, divertita, in piedi, seduta, con mano alla ringhiera (che non c’è se non disegnata sul fondale appunto), sposto sedie reali ed immaginarie, insceno foto di famiglia con altri turisti che mi guardano perplessi, e che in fondo mi assecondano perché non hanno ancora chiaro che non appartengo al personale del museo.

Insomma gioco all’assistente di Manó. Mi affaccio da quella finestra e mi immagino Budapest cento anni fa. Mi chiedo cosa vedessero i clienti in attesa, o le modelle o lo stesso fotografo ed i suoi apprendisti. Sento la mancanza di quell’epoca e del tempo che ci voleva per farsi una fotografia, mentre io che sono in questa stanza da venti minuti ne ho scattate già almeno trenta di foto col cellulare. Per farne una sola ci volevano almeno trenta minuti…. Almeno. Lastre fotografiche e preparazioni. Si tratta del valore che do (che diamo?) al tempo…

Era più importante la destinazione quando la raggiungevi così faticosamente. Un’importanza che oggi riconosciamo quando mettiamo accanto ad una merce l’aggettivo “artigianale”… per dire che lo abbiamo fatto a mano e che ci è voluto tempo.

Costa tanto…
Eh, però, è artigianale!
Ah, quand’è così, allora li vale tutti.

La gente ritratta in questi scatti, però, non è affatto artigianale, anzi, mi sembrano un po’ pomposetti. Sono quelli ritratti negli anni Sessanta e Settanta che hanno la qualità dell’artigianato. Ed anche di questi ritratti ne trovo a bizzeffe nel museo che mette insieme le foto di tanti fotografi in un racconto di Budapest fatto a tanti occhi e tanti scatti. Una sequenza offerta in un religioso silenzio, nel quale ogni tanto si apre uno sprazzo di musica che ci accompagna nella rivoluzione, negli anni di piombo, nella ripresa, nella prigionia e nella conquistata libertà.

All’ultimo piano una personale di giovane fotografo… che ha lasciato la fidanzata allo “spiego” entusiasta delle foto.

La Galleria Mai Manó, al piano intermedio, offre spazi espositivi per mostre dedicate a importanti fotografi recentemente scomparsi, come pure a lavori originali di giovani fotografi all’inizio della carriera.

Nella Large Hall (un tempo casa di Mai Manó, al primo piano) si tengono le mostre principali, aperte per periodi piuttosto lunghi, generalmente sei settimane, e questo spazio viene riservato abitualmente a fotografi non ancora famosi, a mostre itineranti provenienti dall’estero, dal Museo Ungherese della Fotografia o da altre collezioni nazionali o estere.

Il piano inferiore del Daylight Studio, al secondo piano, è denominato Second Floor Exhibitions Space: si tratta di una sala più piccola dove trovano spazio le mostre minori di giovani diplomati o agli inizi della carriera, insieme a quelle di artisti sperimentali. Qui si tengono anche presentazioni di libri e altri eventi artistici.

Lascio a malincuore il palazzo. Nel bookshop compro un libretto sulla ombre cinesi: non riesco a scegliere nemmeno un libro di fotografia. Una bambina bulimica in un negozio di dolci. Paralizzata da tanta storia e tanta bellezza. Ma-nò…

La casa della fotografia
Il palazzo di otto livello fu costruito nel 1894 per l’ordine di Mai Mano, il fotografo del reale e corte imperiale. Il museo ospita esposizioni temporanee di fotografi ungheresi o stranieri.
Ingresso: 1500 HUF ogni giorno 11.00 – 19.00
Il sito di Mai Manó ház

Dove si trova?
L’Indirizzo: Via Nagymező 20 (raggiungibile facilmente con il Metro 1, o con il bus 105 (la fermata si chiama Opera, o con i filobus 70, 78 (la fermata si chiama Andrássy út).

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Autore Barbara Napolitano

Barbara Napolitano, nata a Napoli nel dicembre del 1971, si avvicina fin da ragazza allo studio dell’antropologia per districare il suo complicato albero genealogico, che vede protagonisti, tra l’altro, un nonno filippino ed una bisnonna sudamericana. Completati gli studi universitari si occupa di Antropologia Visuale, pubblicando articoli e saggi nel merito, e lavorando sempre più spesso nell’ambito del filmato documentaristico. Come regista il suo lavoro più conosciuto è legato alle dirette televisive dedicate a opere teatrali e liriche. Come regista teatrale e autrice mette in scena ‘Le metamorfosi di Nanni’, con protagonisti Lello Arena e Giovanni Block. Per la narrativa pubblica ‘Zaro. Avventure di un visionauta’ (2003), ‘Il mercante di favole su misura’ (2007), ‘Allora sono cretina’ (2013), ‘Pazienti inGattiviti’ (2016) ‘Le metamorfosi di Nanni’ (2019). Il libro ‘Produzione televisiva’ (2014), invece, è dedicato al mondo della TV. Ha tenuto i blog ‘iltempoelafotografia’ ed ‘il niminchialista cinematografico’ dedicati alla multimedialità.