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Massoneria: il simbolismo dell’Aquila e del Pellicano – Parte II

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Massoneria


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Qui si dipinge l’aquila che fissa la luce del sole, gli aquilotti, i pesci, il mare. E questa aquila significa Cristo e il sole Dio, gli aquilotti gli angeli e i pesci gli uomini e il mare il mondo.
Philippe de Thaün

Allora il Tempio sarà stato consacrato, le sue pietre morte diverranno vive, il Metallo impuro sarà trasmutato in oro fino e l’Uomo ritroverà la sua primitiva condizione.
Robert Fludd – Tractatus theologo-philosophicus

Dopo la riflessione introduttiva della scorsa settimana, è giunto finalmente il momento di entrare a passo prudente ma deciso nella foresta del mistero ed inquadrare alcuni aspetti storico-filologici del 18° grado in relazione al simbolismo dell’Aquila e del Pellicano.

Come è noto, il primo Capitolo del grado Rosa+Croce si insedia nel 1761 a Lione grazie a Jean-Baptiste Willermoz, massone e personaggio fondante del Martinismo delle origini, con il titolo di ‘Cavaliere dell’Aquila e del Pellicano, Sovrano Principe della Rosa+ Croce e di Heredom’.

Nel XVIII secolo si aggiungeva spesso al titolo di Rosa+Croce l’appellativo di Cavaliere di Heredom, che richiamava la cosiddetta Loggia degli Alti gradi detta di Heredom di Kilwinning di cui Ramsay parla nel suo discorso del 1737.

Irene Mainguy, notissima bibliotecaria-documentalista, in carica presso la Biblioteca del Grande Oriente di Francia e Vicepresidente dell’Associazione Francese di Ricerche sullo Scozzesismo, aggiunge:

Tale appellativo è rimasto nella versione della Rosa + Croce praticata in Inghilterra. Sembra che sia il grado del sistema scozzese ad aver assunto il maggior numero di attributi diversi per definire il proprio titolo: Cavaliere dell’Aquila Bianca o del Pellicano, conosciuto sotto il nome di Perfetto Massone, o Cavaliere della Rosa + Croce.

Attributi e nomenclature a parte, non può sfuggire che sia il Pellicano che l’Aquila, oggi siano stati in qualche modo marginalizzati e confinati alla sola presenza nel gioiello del grado, che oggi in molti casi non offre due facce ma una sola, quella del Pellicano e, come riferimento testuale, a un minuscolo dialogo presente nel catechismo del grado:

D.: Che significa il Pellicano?
R.: La devozione muratoria.
D.: E l’Aquila?
R.: La libertà.

Per poi proseguire:

D.: Ed il Compasso coronato?
R.: L’Uguaglianza.
D.: E la Rosa sulla croce?
R.: La Fratellanza.

Tralascio commenti sulla deriva o, se si preferisce, “riforma” moralistica e forzatamente illuminista del testo. Prova ne sia il frammento di questo rituale scozzese il cui manoscritto è oggi conservato presso la biblioteca del Supremo Consiglio di Washington.

D.: Cosa avete cercato in questo viaggio?
R.: La Parola che era stata perduta e che la nostra perseveranza ci consenti di rinvenire.
D.: E chi ve la diede?
R.: Non è permesso ad alcuno di darla, ma avendo riflettuto su ciò che io stavo vedendo ed udendo, io La trovai in me stesso, con l’ausilio di Colui che è l’autore della Parola.

Tradizionalmente il gioiello di questo grado è un compasso in oro aperto a 60 o a 90 gradi. Sull’apice del compasso spunta una rosa in boccio. Su un lato del gioiello è posta un’aquila con le ali e la testa reclinate. Sull’altro si vede un pellicano che si apre il petto per nutrire i piccoli posti in un nido sotto di lui.

Per accennare in estrema sintesi ai molteplici significati dell’Aquila e del Pellicano, dirò che l’Aquila è simbolo “verticale” e trascendente del principio spirituale. Un’immagine rapportata agli elementi aria e fuoco, maschili ed ascendenti. Nella tradizione vedica l’Aquila ha un ruolo importante come messaggero, in quanto porta il soma a Indra. nell’America precolombiana rappresenta il principio spirituale e celeste in lotta contro il mondo inferiore. Nel cristianesimo è il simbolo di Giovanni, il più metafisico degli evangelisti, che ci fa intravedere le altezze vertiginose del Logos.

Analogamente l’Apostolo che posò il capo sul petto di Cristo, visto sotto la forma simbolica del Pellicano è simbolo del Cristo che col sacrificio di sé redime gli uomini. E “condensa” ed effonde nel mondo la grazia emendata dal peccato. Non a caso in alchimia il Pellicano simboleggia un particolare vaso nel quale veniva riposta la materia liquida da distillare.

Molto più importante, per tenere fede a quanto ho dichiarato all’inizio di questo articolo, è la determinazione di non millantare credito e viaggiare in senso ascendente, con le mie piccole ali, ma almeno “mie”, verso la sommità dell’Albero della Vita.

L’Aquila e il Pellicano rappresentano, in alto e in basso, due aspetti integrati e complementari in costante rapporto dinamico: la Corona, Kether, il mondo preformale del Sublime Architetto dell’Universo e la Bellezza, Tipheret, fattasi grazia, dono e Figlio nella manifestazione cosmica.

In questo grado ci autoiniziamo e ci generiamo non senza aver ricevuto l’aiuto, dall’Alto, dalla Luce Suprema del Principio che bagna la rosa di rugiada, e ci genera come proprio Figlio – cioè come “Cristo” e come “Sé”,

come se stesso, e se stesso come noi, e noi come il suo essere e la sua natura.
Meister Eckhart – Sermone 6

Partendo dal basso, l’incontro con il Pellicano, così come l’ho percepito in meditazione, è uno stato samadhico di ritorno al centro della croce, o della “ruota” – uso volutamente un termine “alieno”, rispetto alla tradizione occidentale, per libere il contenuto dalla gabbia interpretativa della forma – nel punto geodetico in cui la coscienza si unisce con il divino.

È la scoperta del Sé, del Divino Cristico in noi. L’abbandono di ogni contaminazione egoica. Il punto misterioso d’equilibrio in cui, attraverso l’amore sacro, i Piccoli Misteri sfiorano la vertigine dei Grandi Misteri. Cabalisticamente è la regione di Tipheret.

Il Pellicano è l’uomo finalmente purificato, realizzato e perciò sapiente, armonioso, amorevole e compassionevole per ogni creatura dell’Universo, il cui ego, fatto di condizionamenti, vizi, pregiudizi, superbia ed altri metalli, muore crocefisso e torna virtualmente nello stato di Adam Kadmon prima della caduta. Alzando gli occhi per un attimo, come l’Aquila che fissa il sole senza accecarsi, in una regione incommensurabilmente lontana e quanticamente vicina si ode, oltre il tempo e lo spazio, il suono abissale della luce che dal Tutto – Nulla dell’Emanazione scende nell’effusione condensativa del Logos.

Mai come oggi, nella nostra condizione di uomini e donne che hanno intuito il mistero del Nulla o preavvertito il brivido di un’uscita dal mondo, come direbbe Elémire Zolla, è necessario fare leva sulle tre virtù teologali del XVIII grado: Fede, Speranza e Carità. Ma vissute in modo esoterico e non solo religioso.

Perché, come ho già avuto modo di scrivere altrove, la nostra Cattedrale interiore, che si espande nelle molteplici direzioni dello spazio e del tempo, ha bisogno di tre saldissimi pilastri: quello della fiducia, la Fides sovraumana e sperimentale della benevolenza divina.

Per costruire in altezza ci vuole il fuoco del desiderio, la Spes nella nostra crescita personale.

Per la larghezza ci vuole tanto Amore Universale, Caritas intesa non come elemosina ma come diritto umano alla giustizia e ad un’equa distribuzione della ricchezza. Ma per oltrepassare l’immane “lunghezza” del Tempo occorre la forza di una Virtus fatta di perseveranza, operatività ed irremovibile volontà.

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Autore Hermes

Sono un iniziato qualsiasi. Orgogliosamente collocato alla base della Piramide. Ogni tanto mi alzo verso il vertice per sgranchirmi le gambe. E mi vengono in mente delle riflessioni, delle meditazioni, dei pensieri che poi fermo sul foglio.