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L’incrocio e il pertuso

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Porta Medina Napoli


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La filo diffusione porta una voce sintetizzata e priva di qualsiasi empatia, voce strappata ad un automa che non ha capacità di modulare la fisicità delle lunghezze d’onda delle singole lettere.

Voce che comunica a noi, pochi e distanziati viaggiatori, delle pene e sanzioni previste dal recente decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Per un istante mi è sembrato di essere immerso in ‘1984’ di Orwell. Mi è parso di sentire l’Occhio vigile e controllante posato sulle mie spalle mentre i passi seguono le scale della metropolitana. Per quell’istante l’anonimo Winston Smith percorre con me una delle tante strade di Oceania, avendo tra le mani lo scritto di Emmanuel Goldstein. Nelle mie, invece, è stretto il ‘Ramayana’ raccontato da Rasipuram K. Narayan.

Il vuoto sovrasta ogni cosa in questo pomeriggio di inizio primavera. Cammino a Napoli seguendo via Olivella. Il cielo è grigio di nubi. Pesanti, muovono verso il suolo. Le accompagna un vento freddo dal Nord. Corre per le strade vuote. Incrocio via Montesanto proprio davanti la piazza.
In lontananza un uomo. Indossa malamente una mascherina chirurgica, di quelle verde acqua. Poco più in là, si tiene a distanza una donna.
Non molto alta. Il cappotto grigio un po’ consumato. Il cappello di lana marrone, intramata a fili color arancio, fa tutt’uno con la mascherina bianca e gli occhiali tondi dalla montatura nera. Gli occhi misurano lo spazio che la separa dall’uomo.

Stringe a sé la grande borsa che le scende da una spalla. Anche lei, la borsa, porta le tracce del perenne utilizzo. Le mani coperte da guanti blu. Quelle mani. Quei guanti esprimono l’estremo isolamento in cui la donna si è chiusa. Rallenta un po’. Rallenta con discrezione, quella discrezione che oggi è dono di pochi. Non vuole offendere quell’uomo. Non vuole si accorga di quella paura nascosta. La paura del contagio. La paura che fa vergogna. La paura dell’altro.

Ma l’altro è quell’uomo e non si accorge di lei. Alto e magro si ripara dal freddo chiudendosi nelle spalle. Nota solo ora la donna. Donna che diventa l’altro per l’uomo. Avanza un po’ di più il passo stringendosi contro il muro del palazzo vicino. Lo fa in modo screanzato, ma avverte la propria vergogna, la stessa che prova la donna.

Quel muro diviene la sponda che lo porta in salvo dal fiume scuro e tormentoso che scorre senza creanza, seguendo semplicemente la propria natura. Non sono più giovani. Nei loro occhi la vita trascorsa fra tragedie e polveri.

Un metro. Questa è la distanza da rispettare, secondo le norme, da un altro essere umano per evitare il contagio. Un metro. Meglio due, anzi allontaniamoci il più possibile. I pensieri passano come schegge nelle menti dei ‘due distanti’, dei ‘due isolati’. Sono diventati bolle non più storie interagenti.

Questa piazza, quest’incrocio porta con sé le vite che l’attraversano, dirigendole a proprio piacimento lungo una strada piuttosto che un’altra.
Lì, in quell’incrocio, mentre il cielo non trova la propria di strada, la voce di un uomo. Come ad ogni vespro di questi giorni di clausura, il parroco della chiesa di Santa Maria a Montesanto intona la messa attraverso gli altoparlanti posti all’esterno del tempio.

In quella chiesa è sepolto, tra gli altri, Alessandro Scarlatti. Nella cappella di Santa Cecilia è posta la lastra di marmo bianca sotto la quale riposa nella sua meritata pace l’“uomo notevole per equilibrio, generosità e bontà, massimo innovatore della musica”.

Li sento come monito: equilibrio, generosità, bene e ricerca costante di armonia sempre nuova.

La mente si ferma su Scarlatti mentre la voce prosegue il proprio cammino nell’aria spessa. Un muezzin, da questo minareto che è Montesanto, che invita i cuori dei fedeli ad imbandire il messale quotidiano, a spezzare il pane. Ognuno, in questo momento, diviene sacerdote nella propria stanza, nella propria casa, nel proprio incrocio.

In quest’incrocio resto fermo. La donna e l’uomo dividono, in fine, le proprie strade: lei si incammina verso la via dei Ventaglieri, forse la propria casa è lì vicino perché mi giunge il sospiro di chi si sente ora in salvo.

L’uomo, invece, prosegue per la strada dove un tempo sorgeva il Pertuso, la Porta Medina. Dando la schiena alla paura si inoltra nella strada vuota in cui il vento forza ad incanalarsi aumentando la propria intensità.

Passa di fianco al muro dove è ancora visibile la targa che ricorda la Porta costruita attorno al ‘pertuso’ realizzato abusivamente alla fine del Cinquecento dal popolo napoletano per facilitare l’ingresso in città per chi proveniva dalla zona collinare. Un ‘pertuso’ nelle mura cittadine. Una faglia, una frattura nel sistema difensivo della città. Da quella frattura, irregolare e non prevista, nacque una nuova porta di accesso. Che sia questo momento il Pertuso, la falla nel nostro sistema. Che sia il Pertuso ‘della’ nostra civiltà. Che sia il Pertuso ‘per’ la nostra civiltà attorno al quale avere la capacità di allargarlo, modellarlo, assecondarlo per renderlo Porta di Accesso.

La donna e l’uomo sono ormai spariti, inghiottiti chissà in quale altro spazio lontano, attraverso quale apertura. Mi incammino anche io verso la mia breccia, lasciando l’incrocio e il pertuso alle nubi grigie che si attardano al violaceo. Scendono lente, sempre più lente inghiottendo il cielo. Un’ultima luce cerca di rallentare il loro cammino frangendo le mutevoli forme.

Porta Medina Napoli

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!