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La menzogna vera

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Napoleone


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Se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera.
George Orwell

In questi giorni stanchi e zeppi di paura, dove la guerra sta assumendo proporzioni incontrollabili nella sotto sfera della nostra anima, ci accorgiamo che ogni parola è tutto ed è niente.

Un gioco di specchi che rovescia la realtà e confonde lo spirito con la ragione, sovrastando le illusioni con rapide ascese negli abissi incontrollabili del non percepito e della fugace, ma mai cieca, apparenza.

Si guarda altrove per non capire il vero che è più nero del nostro dentro. Cosa è di più grande di questa Storia che ci sta passando addosso e che ci sta sgretolando le certezze più intime e anche i dubbi più convincenti?

Uno stivale enorme che spacca il suolo e ci mette sotto, schiacciando ogni pensiero che ha ossigeno per un solo giorno. Che vi siano teorie dietro le spiegazioni fornite al pubblico dagli esperti di politica internazionale molti lo avranno scoperto di recente, nel terribile frangente della guerra mossa all’Ucraina dalla Federazione Russa.

Infatti, di norma gli strumenti utilizzati per interpretare le diverse vicende non vengono esplicitati, e per una buona ragione: anche sintetizzando il percorso che ha condotto a trarre una determinata conclusione, si porterebbe via spazio alla risposta puntuale che l’interlocutore si attende.

Le esperienze vissute ci insegnano che solo l’amore costruisce, mentre l’odio produce solo devastazione e rovina. E ciò che sfugge all’inondazione ardisce comunque di restare compromesso nelle trappole del risentimento e del rancore.

Siamo i saccheggiatori del tempo ambiguamente condizionati dalle diverse articolazioni politiche, che lavorano instancabilmente per accertare e rendere di fatto che i morti non sono morti, che la storia, soprattutto quella dell’Occidente, non è il gremito cimitero che abbiamo dinnanzi, e che la sopraffazione violenta non è stata la norma evidente operante in questi secoli, soprattutto in quello appena trascorso.

Siamo i primi revisionisti di noi stessi. La Storia, si sa, si cura ben poco dell’etica, della morale, delle ideologie, delle intenzioni, delle contraddizioni e dei drammi intimi. Essa è condotta dai capelli di Napoleone, dalle speculazioni di Niccolò Machiavelli o dai sillogismi di Giambattista Vico.

Rivedere le descrizioni e le interpretazioni del passato è di per sé un atteggiamento connaturato al lavoro storiografico, quando è ispirato alla ricerca di approfondimento: ogni revisione deve essere però sostenuta dalle fonti indispensabili alla ricostruzione di ciò che è stato.

Non è questo il caso di tutte le teorie revisioniste che hanno voluto correggere, fino a rovesciarne i termini, l’interpretazione stessa di questo o quel movimento.

Possiamo dire che già a metà degli anni Ottanta del Novecento il rapporto dei ricercatori con la società è entrato in crisi in relazione alla nuova centralità assunta dalla memoria nel rapporto col passato e al ruolo che hanno i media nell’appiattire la prospettiva sul presente: così gli studiosi sono scesi dal terreno scientifico a quello dell’ideologia, e siamo pervenuti ad un uso pubblico del passato in funzione della lotta politica.

La Storia che ci rovina ma ci fa rinascere: in quella abluzione che si ripete e mai si rinnova. Ecco che il revisionismo viene liberato dallo storicismo per divenire appannaggio dei media e pratica di scultura dei fatti ad immagine e somiglianza ordoliberista.

Non si tratta solo di escogitare taluni fatti o tacerne altri. Di fronte al suo tribunale, perfino i più sistematici esperimenti di falsare la verità finiscono necessariamente con il trovare la loro immancabile condanna.

Essa è una maestra in attesa di discepoli che può insegnarci molto perché la sua luce non è unicamente quella di una lanterna a poppa che irradia solo le onde rimescolanti dietro la barca sospinta da quel vento veemente che è l’inevitabile destino.

Gli orrori della guerra, la gente che fugge, che perde tutto, casa, affetti, lavoro, dignità, sono e rappresentano semplicemente un affare per la nostra coscienza e non solo. Sia qui, oggi, che altrove, ieri e domani.

Insomma, la variante offensiva di un realismo che ha plasmato il dibattito su cause e responsabilità del conflitto non ci persuade.

Ad esempio, autorevoli commentatori, che pure si riconoscono nell’approccio realista, hanno sostenuto che per una spiegazione soddisfacente occorre guardare piuttosto ai fattori privilegiati dal realismo classico: gli interessi nazionali e il potere, nonché il decisore che deve via via stabilire come il secondo possa meglio servire i primi.

Come se rientrassimo tutti in un sistema quasi anarchico. Un poco come accade oggi nel nostro Paese, dove la storia sta oltraggiando, per alcuni, o sta venerando, per altri, se stessa: e tra fascismo e antifascismo non valgono più le bussole della coscienza democratica, la differenza tra giusto e sbagliato, la consapevolezza delle camere di tortura, dei rastrellamenti e dell’Olocausto o la spietatezza di un partigiano vendicativo.

Il paradigma vittimario cancella le differenze. Così che dietro la bandiera della riconciliazione si cela spesso un revisionismo addestrato e aggressivo che bilancia in un’equazione impossibile i martiri della Shoah e le vittime del comunismo: questi i morti tuoi, questi i morti miei, siamo pari.

Nel frattempo, si sono diffusi ulteriori aspetti della rilettura di quel passato: il negazionismo, ad esempio, che pare essere il figlio degenere del revisionismo, e, ancor più pericolosi anche se in apparenza meno radicali, il riduzionismo e la banalizzazione, grazie ai quali si utilizzano le vicende legate ad un determinato periodo per confezionare prodotti commerciali come film o libri che le assimilano a ogni altra vicenda implicita nella crudeltà della guerra o le collocano in contesti improbabili.

La Storia non si può falsificare ma non si può nemmeno imbottigliare. In fondo, il rapporto tra verità e storia è tanto profondo quanto problematico. Se ne rintraccia, del resto, l’origine nella duplice dimensione che Hegel le conferisce: gli eventi accaduti, res gestae, e la loro narrazione, historia rerum gestarum.

Proprio mentre si fa più stretto il rapporto tra giurisdizione e storia, fino alla determinazione delle «verità» tramite lo strumento legislativo, diventa necessario ribadire come la ricerca morda il freno quando si cerchi di ingabbiarla nella certezza deduttiva.

Ecco che la ricostruzione di un evento è dunque un modello da laboratorio che prova ad approssimarsi all’accadimento e di comprenderlo, erudirlo alla verità assoluta o quanto meno beneficiarne della sua luce.

Inoltre, poiché la somma degli elementi superstiti resta insufficiente alla loro diffusione, lo storico li seleziona e li rinarra. La ricerca, anche in questo campo, non può dunque essere dogmatica. Ma nemmeno discrezionale.

È una forma di narrazione e di scrittura del passato, che risponde alle regole di un mestiere, e di un’arte: l’identificazione di un “dato fattuale” accertato da una fonte; la definizione del suo contesto; il confronto con gli studi precedenti.

Quello che possiamo dire con certezza è che oggi assistiamo sempre più a un tentativo di rivisitazione del passato, e dei personaggi che lo hanno caratterizzato, e tale rivisitazione prevede la forzata rimozione di elementi che non si addicono alle istanze e alla sensibilità del presente.

Oggi si elimina dalla cultura e dall’immenso patrimonio artistico e letterario che abbiamo alle spalle tutto ciò che viene reputato razzista, sessista, antidemocratico, antiliberale e così via.

Invero, lungo tutto l’arco della storia si sono assistite a particolari reinterpretazioni una volta sopraggiunta una nuova sensibilità. A noi non resta che sperare in una epoca che guarda a una nuova solarità in cui la

Tradizione sappia convivere con gli aspetti positivi della modernità.

Un revisionismo storico che sia un sano revisionismo, è ammesso, è giusto, è doveroso. Tu non puoi sentire sui fatti della storia una sola voce. Ne devi sentire anche altre.
Andrea Camilleri

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.