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I nuovi selvaggi

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Questo gioco crudele fra l’inguaribile idealismo dei giovani, e l’inguaribile sete di dominio dei vecchi, non avrà mai fine. Sempre nuove onde si infrangeranno contro lo stesso scoglio.
Luciano Canfora 

L’immagine è chiara anche se presa dall’alto. La musica ad alto volume che sbrana il sonno di chiunque ma elettrizza l’euforia dei giovani. L’immortalità è tutta in quelle note che possono infastidire gli altri ma che rendono egoisticamente insuperabile la vita di quei secondi. Sono attimi di frastuono e di goduria che nessuna regola può e deve impedire.

Poi, ecco che all’improvviso appare il Batman comune, il giustiziere della notte in versione Fantozzi incazzato che, però, in un lampo diviene l’eroe di noi tutti. E mi riferisco a chi come me è sopra gli anta. Irrompe tra le moine e quel suono interminabile: non ha la tuta calzante nera ma un bermuda e una camicia stropicciata dall’insonnia, temiamo. È deciso ed è armato di un bastone: senza titubanze si avventa sulla cassa che propagano l’inferno sonoro e con un colpo netto la fracassa.

Si vedono i ragazzi guardare allibiti, impauriti e quasi scoraggiai: esiste qualcuno al mondo che non apprezza tutta quella stordita ma bruciante vitalità notturna. Esiste mi sa.

Bene, quel signore, dopo aver reciso il cordone tra le note e il cuore di quei piccoli e indifesi pargoli lasciati liberi da chissà quale nobile famiglia, si volta e urla:

Sono le 4, devo dormire, domani devo lavorare. Questa non è una discoteca!

Ora sarebbe facile dire che sarebbe stata scattata la standing ovation. Io mi metto nei suoi panni e mi tiro dalla sua parte. Per ragioni di età e di morale. Sarebbe, però altrettanto sciocco, non capire che ci sarebbe un’altra fazione, comunque forte e numerosa, pronta a battersi in difesa di quel gruppo di ragazzi che, innocentemente, volevano solo affrontare la notte e attraversala coniugando quella musica pompante con, magari, un cornetto e un caffè verso le sei del mattino.

Il resto è storia conosciuta: si torna a casa, un tuffo nel letto, la mamma che accarezza la fronte, rassicurata dal vederlo steso nelle lenzuola domestiche e buonanotte a tutti. Ci vediamo verso l’ora di pranzo.

Nel frattempo, però, c’è il signor Matteo Tanzarella, ex assessore e sindacalista, che adrenalinizzato dall’azione compiuta non ha chiuso gli occhi e alle 7 deve essere in linea con gli standard di accesso previsti dalla sua esistenza: tutto di corsa e si va al lavoro. Non è l’unico, ce ne sono tanti che quella notte non hanno chiuso occhio. Però, non hanno avuto quel coraggio di rivendicare l’abbraccio ad Orfeo.

Il video che ho cercato di raccontarvi è ambientato nella bella Ostuni ma queste scene sono state e lo sono ancora all’ordine del giorno in ogni città o paese. Schiamazzi e rombi passati dal comune opinare collettivo come “vita notturna”, quella che è obbligata a trasgredire e che deve confondersi nell’ingiusto e nel deplorevole.

Senza fare i paranoici, a mio avviso, è evidente che le logiche di un crollo dei valori familiari e quelle del business acchiappa tendenze vanno all’unisono. In più si aggiunge l’effetto pandemia che ha rilanciato il “carpe diem” misto a “facciamo tutto ora prima che ci richiudono di nuovo”, che degenera in una specie di nostrano “cogli l’attimo e prendiamoci il tempo perso”, mettendo in azione un avvilente e godereccio effetto cafonal-trash sulla morbosa volontà di succhiare, fino al midollo, ogni nanosecondo della propria esistenza. Tutto in balia di una movida sfrenata che non ammette limiti e regole.

Lo stato del diritto lascia posto allo stato del salta sul tavolo che ti passa. Ci sarebbe da rivendicare il diritto alla leggerezza, ma anche al rispetto reciproco. Ci sono luoghi comuni e ci sono luoghi che andrebbero preservati dall’inquietudine foruncolosa. Qui in discussione non ci sono solo il disturbo della quiete pubblica per le emissioni sonore, l’occupazione del suolo pubblico e le autorizzazioni degli eventi.

Molti lamentano che siamo in balia di decisione prese senza che si affronti il punto cruciale, siamo sempre noi a pagare il conto, reclamando un presidio di polizia fisso negli orari più critici. Diciamolo, c’è anche un poco del nostro futuro, senza esagerare con esasperazioni filosofiche proiettate in quel dì che dobbiamo ancora costruire.

La politica è combattuta e, ovviamente, frantumata tra il lascia vivere che fa anche girare l’economia e il proibizionismo più aberrante che ricorda un certo pensiero educativo ossessivo e pedante.

Si pubblicizza di contrastare (siamo sempre in campagna elettorale e i minispot sul tema del giorno sono obblighi da cartellino ma non virtù di pensiero) questa lascività con proposte di movide a basso costo (boh!) e regolamentazione del fenomeno con varie offerte alternative.

Una specie di supercazzola che vuole nascondere il costante brancolare nel buio degna conclusione di chi, piuttosto che lavorare e approfondire certe dinamiche, lascia spazio ai fenomeni da talk show, ai virologi che mutano in sociologi, da psicologi che si trasformano in veline del regime di turno.

Io ho paura nel pensare di affidare le mie bambine al primo dj e ex soubrette che ha subito la metamorfosi della portavoce di questo o quel partito e ho difficoltà a lasciare i loro giorni a venire a chi, nonostante studi matti e disperati, si trova nel salotto buono e comodo delle televisioni perché soprattutto deve pubblicare la sua ultima fatica letteraria. Con le marchette non arriviamo a domani, al massimo fino al bagno.

Quello che penso è che i giovani dovrebbero essere il principale programma politico di ogni partito e di ogni comunità che si rispetti. Senza inutilmente scorrere il libro dei ricordi e dedicarci a quella micidiale frase che, oscenamente, mettiamo tra le nostre intenzioni di migliorare il divenire sovvenendo alle epoche nostalgiche della nostra anima:

ai miei tempi…

I giovani sono visti come animali in gabbia, li nutriamo delle nostre frustrazioni, annullando le speranze che coltivano. Alla fine, ognuno di loro è il nostro biglietto da visita per il paradiso. Li guardiamo inorriditi, pensando non senza una certa civetteria blasfema a cosa fossimo noi alla loro età e con struggente invidia a cosa, invece, potevamo diventare sfruttando le risorse di oggi. Ma sono discorsi che coniugano solo la fantasia con una certa frustrazione individuale.

Non sappiamo, non lo abbiamo capito se sono attratti dalla politica: li abbiamo visti fare i girotondi o etichettarsi come un pesciolino presente soprattutto nel mare del Nord, per poi farsi fagocitare dalle illusioni e dalle chimere del posto sicuro e dall’avanzamento in carriera con papà che copre le spalle acerbe.

Ma questo lo abbiamo visto e vissuto già con i fanatici del 1968: le loro barricate oggi sono gli avamposti dei migliori uffici, studi legali e studi televisivi che abbiamo. Eppure, loro la politica la vivono quotidianamente. Vivono di solidarietà e di confronti, quando non sono assorbiti dai social più abietti. Rispetto alle precedenti generazioni hanno più finestre e più possibilità di ispirazione. Ma che tipo di ispirazione possono trarre da questa società sull’orlo dell’abisso e del dimenticatoio?!

Magari prima con pochi mezzi, ed alcuni di essi rurali, si doveva lavorare con maggiore profondità realizzativa e di giudizio per capire e per costruire. Quindi si provava e si cercava, c’erano la gioia della pace serale e l’orgoglio del riscatto, l’umiltà nello studiare e la pacatezza metodica del traguardare un obiettivo.

Oggi ereditano le logiche di un mondo in cui la massima espressione concettuale che siamo riusciti a trasmettere come valore di sopravvivenza è stata quella di prendere tutto ciò che si poteva e fregarsene del prossimo e di chi ha ragione. Cosa potevamo aspettarci se non una débâcle furiosa e un acquietarsi marmoreo dietro alla possibilità del posto fisso?

Eppure, stanno lì con il sorriso e con i buoni propositi. Iniettano un’anestetizzante senso di contentezza, pronti ad adattarsi e svalvolare allo stesso tempo. Durante la pandemia sono stati abbandonati e poi liberati ai loro fantasmi e a quelle abitudini da stressati burini dell’ovvio.

Balli, soldi, fumo, liti dietro un filo di speranza e di voglia di rinascita. Inorriditi dalla probabilità di cercare lavoro altrove: vogliono vincere le loro battaglie vicino casa, citofonare alla voce “mamma&papà” per avere confort e affetto garantito.

La domanda che un Paese civile e con un’idea del futuro dovrebbe farsi è cosa stiamo facendo per il loro avvenire, se stiamo investendo, se abbiamo pianificato qualcosa e se stiamo creando le giuste alternative.

Ma siamo troppo assorbiti dai dibattiti del momento, dal politico scontro delle parti, dai riti domenicali e dalla paura di scoprirci sensibili e avanguardisti. Meglio essere concentrati su quello che stiamo vivendo, i giorni che verranno se li devono guadagnare e devono faticarli loro.

Noi, se Dio vuole, saremmo già nelle grazie di un oblio cadaverico o meglio ancora pensionistico. Finora non è stato fatto nulla ed inevitabilmente questi giovani sono chiamati a determinare il futuro di altre generazioni.

Io li guardo, coprendo la polvere dei miei anta: quel loro senso selvaggio di vivere mi infastidisce e mi snerva. Non ho altro da fare, torno sul mio divano e spengo la coscienza. Il futuro è un loro problema. Io ho due figlie da pensare ora.

Pensi che gli adulti avranno rimesso il mondo a posto quando ce lo passeranno?
Bill Watterson 

Video Corriere della Sera

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.