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I Borbone e l’omosessualità: la liberta dell’essere

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Omosessualità nell'antica Grecia


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Emancipazione, pensiero libero, superamento di stereotipi, un continuo affannarsi per dimostrare che determinati pregiudizi sono alle nostre spalle. In realtà, quando si affrontano temi come l’omosessualità i preconcetti, duri a morire, fanno sì che riconoscere ed accettare questa identità nella società, ma prima ancora nella propria famiglia, risulti davvero difficile.

L’opinione comune deve ancora metabolizzare che non siamo di fronte ad una malattia da cui si può guarire o, peggio ancora, al capriccio di una moda da seguire. Vivere serenamente la propria sessualità con la piena accettazione del sé, superando quella fonte di sofferenza esplicitata nel facile disprezzo che sfocia in emarginazione, è davvero difficile.

Oggi siamo coscienti che è una semplice e naturale variante del modo di essere di una persona, siamo in grado di capire e rispettare le preferenze più intime dell’altro, che non dovrebbe più celare i propri sentimenti, anche se le cronache quotidiane riportano episodi di bullismo che, troppo spesso, si trasforma in omofobia.

Nella plastica società greca, anticamente, non essendoci alcuna opposizione tra etero e omo, essa veniva vissuta in maniera del tutto normale, in particolare i rapporti tra due uomini, non avevano una valenza solo erotica, rivestivano una vera e propria funzione iniziatica, una sorta di rito di passaggio. L’Erastès, ovvero amante, uomo adulto che aveva una relazione con un adolescente di età non inferiore ai 12 anni, rapiva l’Eròmenos, amato, per un periodo di formazione nel quale entrambi assolvevano a dei doveri precisi. Vi era l’usanza, terminato questo periodo coincidente con la fine della pubertà, che il primo regalasse al secondo l’equipaggiamento militare; questo gesto, così evidente, segnava il passaggio del giovane all’età adulta.  

Vi erano specifiche regole di seduzione; in genere si delineavano nel simposio, in cui i componenti della stessa eteria si riunivano non solo per discutere di politica, ma per banchettare e declamare poesie.

L’omosessualità femminile, invece, era forse più riservata, ma, grazie a Saffo, poetessa vissuta a Lesbo nel VI sec. a.C., possiamo riscostruire dei passaggi. Nei suoi versi scopriamo che gestiva il tiaso, ovvero una sorta di istituto per giovani aristocratiche che dovevano approcciarsi al matrimonio. Venivano impartiti insegnamenti di arti tipicamente femminili oltre la musica, senza trascurare l’iniziazione all’amore. In questi ginecei, tra la maestra e le sue discepole non mancavano relazioni amorose con fisionomia educativa, al pari della pederastia.

Nel Medioevo si ebbe un repentino cambiamento; l’idea del peccato, una morale familiare che prediligeva il pater familias fecero affermare che privilegiare tale pratica fosse qualcosa di altamente deprecabile e peccaminoso, che andava assolutamente punito.

Papa Pio V arrivò a sancire la condanna a morte per coloro che praticavano l’amore omosessuale. In effetti, il numero delle persone uccise e torturate in maniera davvero crudele fu enorme; non era considerato reato solo ciò che era finalizzato alla procreazione, addirittura lo stupro e l’incesto non erano valutati atti gravi al confronto.

Per le donne il problema non era proprio preso in considerazione, perché non le si riconosceva una sessualità legata al piacere.

La situazione migliorò nel XVIII secolo, ma non in tutta la Penisola.

Nel Regno delle due Sicilie le leggi vigenti erano più permissive, anzi, nel codice non vi era alcun riferimento ad essa; erano citati come reati la violenza sui minori, lo stupro, l’oltraggio al pudore, le sevizie. Non veniva fatta alcuna distinzione di sesso; i reati venivano riconosciuti in quanto tali a prescindere se fossero perpetrati da uomini verso persone dello stesso genere o di quello opposto, se vi fosse o meno promiscuità; in sintesi diventava un particolare non rilevante. Non vi era alcun riferimento alla proibizione di attenzioni tra simili.

Molto diverso, invece, era quanto sancito dal Codice sabaudo che lo ascriveva chiaramente come crimine; l’articolo 425 puniva manifestatamente il sesso non conforme se denunciato o effettuato pubblicamente.

Qualunque atto di libidine contro natura, se sarà commesso con violenza, nei modi e nelle circostanze prevedute dagli articoli 489 e 490, sarà· punito colla reclusione non minore di anni sette, estensibile ai lavori forzati a tempo: se non vi sarà stata violenza, ma vi sarà intervenuto scandalo o vi sarà stata querela, sarà punito colla reclusione, è potrà la pena anche estendersi ai lavori forzati per anni dieci, a seconda dei casi.  

Con l’Unità d’Italia fu naturale estendere tale serie di norme in tutta la nazione, ma nel poco evoluto Mezzogiorno non attecchì, anzi fu abrogato. Gli usi e i costumi del meridione, che fino ad allora l’avevano considerata con estrema naturalezza vantando tradizioni di secoli, come riportato in un mio precedente l’articolo, La ruota dell’anno: dai riti pagani alla Candelora, consentivano di vivere la sessualità escludendo denunce con relative condanne e arresto.

Nel 1889, con la promulgazione del Codice Zanardelli, finalmente in tutto il territorio non vi fu alcuna distinzione e, anche nel nord d’Italia, furono abolite quelle restrizioni, unica condizione che fosse praticata in maniera riservata.

Ancora una volta la Napoli Borbonica si distingue, dimostrando un pensiero evoluto e avanguardista non solo tra gli intellettuali, ma anche e soprattutto nel suo popolo che tra le sue tradizioni ha sempre difeso e sostenuto quei riti ancestrali espletati in maniera significativa ne La Figliata dei Femminielli.

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Autore Rosy Guastafierro

Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.