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Zeta

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C’era una volta Zorro, oggi è un simbolo infamante. Il 18 marzo, in occasione dell’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea alla Russia, il Presidente Vladimir Putin ha tenuto un discorso alla Nazione sulla guerra in Ucraina.

In questo contesto, i presentatori e le persone che si sono portate allo stadio Luzhniki di Mosca, presso il quale era stata preparata la celebrazione per festeggiare l’evento, avevano delle Z cucite sui vestiti e in bella mostra sul petto. Proprio nelle ultime settimane, la Z cucita o stampata su giacche e magliette e mostrata anche sulle bandiere rappresenta un simbolo dell’invasione russa dell’Ucraina.

Dallo scorso 24 febbraio, il simbolo ha fatto per la prima volta la sua apparizione sui carri armati dell’esercito inviato in Ucraina dal Cremlino. Dopo, è stata apposta su cartelloni pubblicitari nel durante che i giocatori di bandy e le ballerine di danza classica hanno assunto la forma di una Z prima, rispettivamente, di giocare e di esibirsi.

La grande diffusione fa pensare a una sorta di firma di chi vuole esprimere sostegno alle azioni di Putin, ma dietro al vero significato sono diverse le ipotesi.

Il Ministero della Difesa della Russia ha dichiarato che la Z sta per ‘Za pobedu’ che, tradotto, significa ‘Per la vittoria’. Secondo altri esperti militari la ‘Z’ sottintenderebbe ‘Zapad’, che in russo vuol dire letteralmente ‘Ovest’, ovvero la direttrice principale dell’invasione. Ma per qualcuno è un chiaro riferimento al Presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Le ripercussioni non sono mancate, la risposta è avvenuta da alcune importanti aziende: si è proceduto ad una graduale epurazione di questa “povera” lettera.

Ad aprire le danze è stata la compagnia di assicurazioni Zurich, che ha tolto la “Z” dai suoi profili social sostituendola con la scritta Zurich e spiegando in una nota che l’eliminazione era stata decisa perché la lettera appariva isolata e poteva comportare attribuzioni erronee.

Poi, è stata la volta di Samsung: la multinazionale sudcoreana ha deciso eliminare la “Z” dai nomi dei suoi smartphone pieghevoli in vendita in zone dell’Europa al confine con la Russia. La “Z” è scomparsa dal sito ufficiale della Samsung, ma anche dalle confezioni e dai cartelloni pubblicitari.

Il simbolo, secondo l’azienda, dava istantaneità all’immagine di un dispositivo pieghevole, ma ora si è convenuto, indubbiamente, che l’ostilità della popolazione all’invasione decisa da Vladimir Putin possa compromettere la vendita dei prodotti.

Dalla città stato di Berlino alla Baviera, dalla Bassa Sassonia allo Schleswig-Holstein, la discussione ha preso una piega ulteriore: da giorni diversi governi dei vari Laender tedeschi hanno sottolineato di volersi occupare della perseguibilità del nuovo simbolo filo-russo. Qualcuno sta seriamente pensando di eliminarla perché, come la svastica, simboleggia tirannia e dolore, aggressione e lutti.

Ma ha senso tutto questo?

Una cosa è inneggiare e celebrare un simbolo favorendo le simpatie di questo o quel potere che ha causato o causa morte, un’altra è cancellare qualcosa che appartiene alla nostra cultura o che, semplicemente, ne fa parte e magari è stata espressione anche di altro.

Ricordiamolo tutti: prima di essere adottata da Adolf Hitler, la svastica richiamava specialmente il sole e l’infinito. Nel buddismo cinese essa raffigura l’infinito che si manifesta nella coscienza di un buddha e, spesso, si trova disegnato o scolpito sulle statue del Buddha all’altezza del cuore o sulle piante dei piedi. Nell’arte buddhista giapponese è chiamato Manji: se gira verso sinistra rappresenta l’amore e la misericordia, mentre se gira a destra riproduce la forza e l’intelligenza.

L’induismo adopera il simbolo destrorso della svastica con il significato di “rappresentazione del sole e della rotazione del mondo intorno ad un centro immobile” diventando, quindi, la raffigurazione stessa del dio Visnu. Per questo motivo è inserito all’ingresso dei templi.

Per chiudere: la parola svastica deriva dal dall’unione dei termini sanscriti (devanagari: स्वस्तिक) सु- (“su”, con significato di buono, bene) e अस्ति (ásti-, astrazione verbale del verbo essere), che danno forma alla parola svasti che potremmo tradurre come benessere, successo, prosperità. Così anche la zeta rischia di cadere nel delirio di questa cancel culture.

La zeta deriva dal segno fenico “zain” che significa arma, e presumibilmente collegabile al geroglifico egizio significante “bronzo” o “meraviglia”. Secondo gli studiosi della cabala, si tratta di una lettera “semplice” dominante il movimento, all’origine del segno dei Gemelli, e nel corpo umano corrisponderebbe alla gamba sinistra.

Al di là di questo, il rischio che si sta correndo è di determinare un nuovo angolo buio nella nostra socialità, accusando un simbolo del male che in realtà è nelle nostre stesse vene.

In origine, nel gergo dei social, l’espressione “cancelled” indicava una presa di posizione in prevalenza personale riguardo a qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa ritenuto improprio. Il rischio, infatti, è che nel tentativo di proteggere le diversità si cancelli ogni forma di individualismo e di libertà di espressione.

Alle radici di questa cancel culture ci sono soprattutto gli studi postcoloniali, una disciplina che mischia scienza ed ideologia, e sembra avere un unico scopo: distruggere ciò che è stato costruito da una civiltà millenaria.

Contrariamente a quanto si pensa, tutte queste teorie non sono semplici di deliranti teorici o di sette antirazziste. Non c’è niente di estemporaneo o di circoscritto. Alla base di questo movimento c’è un insieme di indirizzi di ricerca che, soprattutto nel mondo anglosassone, sono diventate materie di insegnamento. Nel loro concetto ancestrale c’è l’othering o anche detto “altrizzazione”. Coniato da probabili intellettuali postmarxisti, esso indica quel processo con cui un soggetto dominante costruisce l’immagine dell’altro, rafforzando parallelamente la propria identità.

Andrebbe studiata una controffensiva per evitare di cadere nel baratro del pensiero libero che vuole rassicurare i membri della sua collettività. Tutto questo nasconde un imbarazzante ma pericoloso di un processo culturale egemone, che finge di abbracciare ogni verità ma pretende di benedire solo la sua esclusività.

Si vuole spegnere l’Europa per favorire un immaginifico ma sterile etnocentrismo che potrebbe solo provocare la perdita di valori tradizionali che hanno fondato ciò che oggi siamo. Ecco, forse è questo che non piace a certe persone ciò che siamo e vorrebbero cambiare il mondo, il nostro non certo il loro.

Vorrebbero che disconoscessimo ogni forma di aggregazione culturale che ha tenuto in piedi generazioni e generazioni e trasformare con veemenza e senza alcun rispetto le idee tramandate da civiltà come quella greco o romana per attualizzare un modello di provincializzazione della nostra quotidiana esistenza.

Annullare ciò che siamo e come ci ha fatto arrivare fino a qui, senza, però, annullare il loro percorso, che li ha accumunati in questo studio fatale: quel percorso intriso dalla stessa cultura che vorrebbero cancellare e che li ha creati dalla A alla Z.

Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono.
Jorge Luis Borges 

 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.