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Non è vero ma ci credo

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La jettatura è una cosa che non esiste, ma della quale bisogna tener conto.
Benedetto Croce 

Mi sia concesso parlare della mia città natale: Napoli. Ne parlerò con ironia e con l’umiltà di chi ha approfondito un tema delicatissimo: la jettatura.

Sappiamo che nel corso della sua storia ha avuto diverse descrizioni: città soglia, luogo di confine, ponte tra realtà e sogno. È impossibile racchiuderla in un solo pensiero.

Napoli è qualcosa che va oltre una schematica considerazione e travolge ogni riflessione. Per questo possiamo ritenerla una città magica.

Uno dei pochi posti al mondo dove l’irrazionale si sposa con l’incontrovertibile, la solennità abbraccia la facezia, l’esoterico si cela dietro una qualsiasi finestra di una qualunque casa.

Non è un caso che durante l’antichità fosse vista come la culla dei misteri del Mediterraneo, il crocevia di tutte le culture iniziatiche: come se fosse un vero e proprio tempio a cielo aperto.

Piazze, vicoli e crocicchi sono da sempre un eterno teatro di una salda religiosità popolare. Tra effluvi e reliquie prodigiose, teste mozzate e balli maledetti, maschere e maghi, pastori e santi, janare e assistiti, fantasmi e culti per i defunti.

Il passo da magia e superstizione non è forzato, diventa quasi scontato. A differenza di ciò che si pensa, la figura dello jettatore non è molto antica, apparendo per la prima volta durante il periodo dell’Illuminismo proprio nel capoluogo campano, per poi essere esportata nel resto d’Italia.

Secondo il pregiudizio popolare, lo jettatore è facilmente riconoscibile: ha il viso magro, il colorito cupo, olivigno, il naso adunco e gli occhi biechi. Immagino che ora cari lettori vi state ripassando silenziosamente nella vostra memoria quanti e soprattutto quali dei vostri conoscenti rispondono a questo funebre identikit; ma è d’uopo passare ad altro.

Vi sembrerà strano ma per approfondire la jettatura dobbiamo partire da un termine che indica completamente l’opposto: il Fascino. Questa parola evoca l’ammaliare. Presso i romani indicava anche il “membro virile”. Credenza antica voleva che immagini e rappresentazioni del fallo riferissero virilità e, quindi, capaci di distanziare ogni genere di negatività.

Tra i greci e i romani poi, il dio più venerato per la protezione dal fascino era Priapo, il cui nome deriva da pri-(h)àpos, ovvero “colui che ha sul davanti un hapos”, cioè un pene. Si narra che si sarebbe liberato dalle magarie dell’invidiosa Giunone proprio grazie al suo enorme membro, per il quale fu poi consacrato dio protettore contro le stregonerie.

La tradizione romana descriveva diversi tipi di fascino, il più potente era quello legato alla lingua, ovvero alla parola.

Catullo scriveva:

Que nec pernumerare curiosi possint, nec mala fascinare lingua.

Che si traduce in

I curiosi non possano contarli o le malelingue gettarvi il malocchio.

Le radici storiche del fenomeno sono remote, dunque, almeno quanto la condanna dello sguardo geloso del bene altrui. Gli antichi lo chiamavano “invidia”, che etimologicamente significa “guardare contro”, proprio come il termine ebraico “qinah”.

Virgilio e Ovidio, invece, temevano del fascino originario dall’occhio e credevano fossero più grandi fascinatori coloro che avevano due pupille, stiamo parlando dell’“oculus malus”, l’occhio invidioso che esprime il suo occulto potere.

Anche nelle epoche successive si ritenne che lo spirito saetti i suoi raggi attraverso gli occhi, “come per finestre di vetro” secondo la definizione di Ficino. Perché?

Perché gli occhi sono posti in alto, così che ad essi arrivano più facilmente gli spiriti leggeri dai luoghi cerebrali dell’immaginazione. Perché sono “trasparenti e nitidi” come gli specchi e, quindi, particolarmente adatti a ricevere gli spiriti lucenti. Perché posseggono qualche lume anche in proprio, come dimostrano alcuni animali e uomini, imperatori come Ottaviano e Tiberio, ad esempio, dotati di visione notturna.

È da questa credenza che nasce la tradizione tutta italiana del malocchio, termine con cui si intende l’azione malefica prodotta da un presupposto fluido che emana dall’occhio di particolari persone. Con il termine fascino si indicavano effigi ed amuleti fallici che venivano utilizzati contro il malocchio e gli incantesimi.

Anche per Plinio il Vecchio il fascinus fungeva da medicus invidiae: tanto vero che proprio un fascinus veniva appeso sotto il carro quando un generale celebrava un trionfo. E durante la festa di Dioniso/Bacco veniva portata in processione un’immagine fallica, che aveva il compito di proteggere i campi dalla fascinatio, ovvero l’incantesimo negativo.

Nel Medioevo il “fascino” divenne opera del demonio, come una qualità nociva indotta per arte dei demoni in virtù di un patto stabilito con loro oppure frutto di un maleficio delle streghe.

Successivamente, e grazie a uomini come Giovanni Battista Della Porta, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, il pensiero meridionale ha dato un contribuito decisivo, nel Rinascimento, alla magia naturale, prendendo le distanze da quella cerimoniale; ma è nell’età dell’Illuminismo che ha scarsamente partecipato all’esplicita presa di coscienza dell’alternativa tra magia e razionalità.

È, poi, nella Napoli settecentesca che nasce la jettatura. Secondo la tradizione popolare è un maleficio involontario causato dall’influsso naturale, quasi una sorta di forza magnetica, generato da individui nefasti, schivati e odiati allo stesso tempo, così come temuti e rispettati.

Si diviene, quindi, ad un compromesso tra il malocchio stregonesco legato alle credenze del popolino con l’evoluzione che la classe borghese sta assumendo.

Ci sono dei motivi storico – antropologici: innanzitutto, l’esperienza di “essere agito da”, alla base dei fenomeni di fascinazione e di possessione, è particolarmente diffusa e frequente nel Regno di Napoli, caratterizzato da una storia “negativa”.

La jettatura, come tutte le pratiche magico – religiose, serve dunque a proteggere l’uomo da un mondo in cui tutto “va di traverso”.

Lo stesso Benedetto Croce afferma che prima del ‘600 la jettatura non esistesse. Essa viene citata per la prima volta nel 1787, in un libello di Nicola Valletta, giurista e storico, nella sua opera ‘Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura’.

Croce lo interpreta come un libello scherzoso ma più di uno studioso vedrà in queste pagine la pietra miliare del “non è vero ma ci credo”, addirittura denunciando la morte della figlia dell’autore causata da uno sguardo torvo di uno jettatore.

Comunque vada lo jettatore viene identificato con una forza fisica esercitata da minute particelle che emanerebbero sventura investendo le persone circostanti. Addirittura, è l’uomo quello più portatore di negatività, perché maggiormente coperto di peli, attraverso i quali passa il fluido elettrico.

In quel periodo ricalca l’immagine che sopra vi ho descritto, aggiungendo un vestito sempre nero. Il colorito cupo parrebbe corrispondere all’epiteto di ‘Faccia ‘ngialluta’ rivolto dal popolo al suo amato San Gennaro. In questo modo i napoletani apostroferebbero il santo attribuendogli lo status di jettatore, poiché la mancata liquefazione del sangue è interpretata come un presagio di sventura.

In un altro testo del 1830 di Antonio Schioppa il potere negativo viene spiegato sempre attraverso il magnetismo animale, che, incredibilmente, rivela che il famoso corno, utilizzato per scongiurare la jettatura, non funziona e può avere effetti controproducenti. Questa riflessione nasce dal fatto he i corni, come i peli e le unghie degli animali, sono pregni di carbonico e di elettricismo, quindi sono conduttori!

Non manca lo studio della mimica anti-jettatore come elaborato dal canonico de Jorio nel saggio ‘Mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano’. Tra l’altro, l’autore era considerato un temibile menagramo. Si narra che il re Ferdinando I, per ben quindici anni, gli avesse negato udienza fino al fatidico 3 gennaio 1825, quando, dopo averlo ricevuto, fu colto da infarto.

Anche autori stranieri trapiantati a Napoli si interessano all’argomento, come Alexandre Dumas che ne ‘Il Corricolo’ narra le vicende di Cesare della Valle, duca di Ventignano, forse il più famoso jettatore della storia.

L’aristocratico dalla fama sinistra venne accusato anche della caduta del Regno, oltre che di quella più fisica del re Ferdinando, durante una benedizione di vessilli. A lui si collega l’incendio del Teatro San Carlo e della morte di papa Pio VIII dopo che lo stesso lo ricevette a Roma.

Per difendersi, certamente la tecnica più diffusa e conosciuta era quella del «fare le corna» quando si è alla presenza di un possibile iettatore.

Adolphe Desbarolles, diede un’interpretazione sul vero significato di quest’universale e arcaico gesto di protezione magica:

A Napoli si nasconde il pollice (sotto il medio e l’anulare) quando si vuole evitare l’assorbimento del fluido malefico gettato (come la parola stessa indica) dallo jettatore. Bisogna, quando ci si trova in compagnia sospetta, tener piegato e nascosto dentro la mano il pollice, sul quale si abbassano le dita di Apollo (l’anulare – la scienza che assorbe tutto) e di Saturno (la fatalità pronta ad aspirare qualsiasi funesta influenza) mentre si distendono le dita protettrici: quello di Giove (l’indice – la dominazione che respinge) e quello di Mercurio (il mignolo – portatore del caduceo, il protettore). Scudo e spada al tempo stesso.

In questo contesto di sincretismo tra il cristiano e il pagano, come espressione di un’implicita refrattarietà nei confronti di un’egemonica cultura professata dalla Chiesa, la jettatura viene vista come un’ideologia dell’irrazionale che trova le sue radici specialmente nel nostro Sud.

Oggi possiamo credere che il malocchio e la jettatura facciano ancora parte della nostra cultura e continuino a condizionarci profondamente, ad apparire nel nostro quotidiano.

Il ruolo di queste credenze nell’esperienza collettiva non è certo da sottovalutare e riuscire a comprendere le loro remote motivazioni significa soprattutto scavare nella coscienza umana e mettere a nudo le nostre paure ataviche, che mai evoluzione scientifica sarà in grado di spiegare.

Il senso di precarietà dell’esistenza, quando non vi si oppone la fede o la cieca razionalità, finisce comunque per dominarci, conducendoci verso l’inquieto mare magnum dell’angoscia.

Ciò non ci impedisce di lavorare su noi stessi e tendere nel pieno rispetto di ogni credo e di ogni pensiero, di elevare il nostro spirito a più sane e concrete riflessioni per costruire un’umanità che sappia guardare, con occhio benevolo, ad ogni giro di dado che il caos determina nella sua volontà e la grande energia ad influire nelle nostre vite.

Sciò, sciò, ciucciuè, aglie e fravaglie e fattura ca nun quaglia, cape e alice e cape d’aglio!

Sciò, sciò, ciucciuè, uocchie, maluocchie e frutticielli all’uocchie, corne e bicorne e ‘a sfurtuna nun ritorna!

Sciò, sciò, ciucciuè, pappavalle, barbagianne, cuorve, taccule e curnacchie.

Sciò, sciò, ciucciuè, lievece ‘a cuollo tutte ‘sti mmacchie!

Sciò, sciò, ciucciuè, jesce fora da casa mia, truovete ‘a n’ata cumpagnia, non te voglio cchiù vedè!

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.