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La Trattativa

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Trattativa Stato - Mafia


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… l’italiano è infido, bugiardo, vile, traditore, si trova più a suo agio col pugnale che con la spada, meglio col veleno che col farmaco, viscido nella trattativa, coerente solo nel cambiar bandiera a ogni vento.
Umberto Eco 

La storia del nostro Paese è stata più scritta e decifrata dalle indagini, dai film, dai libri, dai giornali che dagli stessi storici. Tra realtà e finzione, tra esasperazione e amara verità, ci troviamo un’infinita narrazione dove i colpevoli e gli innocenti si susseguono e si rincorrono in un valzer scabroso, mistificatore e insensato. Sappiamo così che la realtà è andata a servizio della fiction e la fiction della realtà.

Siamo cresciuti ed invecchiati sotto l’ombra nera della prima Repubblica con un quasi papabile Presidente dello stato che si vide sfuggire il mandato tanto atteso perché gli attentati di Falcone e poi di Borsellino svegliarono il popolo e l’opinione pubblica italiana: e fu così che il Divin Giulio ce lo ricordiamo in una aula bunker a difendersi dalle accuse di essere un mafioso.

La seconda Repubblica, che non nacque dalle ceneri della prima ma fu una sua trasformazione arrogante e scontata, passerà alla storia per la turpitudine, l’irrefrenabile vanità e il trenino di ex fanciulle in fiore che sputtanarono il mondo onirico, ma mai felliniano, di un certo Silvio Berlusconi.

E poi, ancor prima e ancor dopo: gli imbrogli, le tangenti, gli omicidi, i servizi segreti deviati, i manager e gli scandali, la CIA, i poteri occulti, la Chiesa, i militari, i golpe e gli attentati. Un diluvio nero dove le tenebre assoldano l’oscurantismo della civiltà, la degradano a vessillo di un tempo memorabile ma oramai andato, la seviziano e poi la gettano nell’immondezzaio dove il virtuale raccoglie, sottolinea, rigenera e spegne.

Il dubbio che viene fuori e che ci dovrebbe devastare è se mai siamo stati un Paese democratico. Abbiamo mai avuto la libertà di decidere, di scegliere e di vincere o anche di perdere ma secondo la nostra volontà?

La nostra storia è un corridoio infinito di zone opache, dove l’inconfessabile sale improvviso a rompere gli schemi dogmatici che abbiamo assorbito in tutto questo scorrere illogico di epoche malsane. E quando sale irrompe in un grido di vergogna e di paura, soprattutto di orrore. Come un ghigno furioso che sega il silenzio, lo sgretola e lo soffia in un temporale acido che riempie i tombini e si sa che quando questi si colmano, alla fine, la merda viene fuori.

Guardiamo alla storia del nostro Paese come se stessimo assistendo ad un evento in streaming, ci creiamo una distanza che non si dovrà mai colmare, che ci farà sentire al sicuro anche se ridicoli. Siamo noi quelli che si illudono di sopravvivere e di sfangarla, crediamo che qualche coppa e medaglia nello sport possa unirci e darci finalmente l’etichetta di essere vincenti, oltre che avere una delle terre più belle del mondo.

Proprio in quel momento stiamo ancor più sprofondando e non ci accorgiamo di non essere riusciti a dare la svolta alla nostra idealizzazione storica, economica e sociale di libertà, di fratellanza e di civiltà.

Non basta vincere nello sport o nella letteratura, avere un premio nel mondo del cinema, se poi non sappiamo distinguere la verità dall’omertà e non sappiamo guardarci negli occhi senza spegnere l’ira di sentirci diversi per origine e per cultura. Siamo una Nazione senza essere un Popolo, siamo un Paese ma non ci riconosciamo nello Stato.

Oggi essere italiani sta anche nell’accogliere l’evento epocale della globalizzazione sapendo che non la si può scansare, ma anche che non si deve farsene divorare. Potrebbe essere l’unico modo per rivedere la nostra identità e, appunto, volerne avere una magari nuova, attingendo dalle radici pulite, per rispettarla e finanche proteggerla.

Altresì potrebbe essere la passiva accettazione di continuare a subire l’Europa unita senza cedere all’appiattimento che l’UE vuole imporre a tutti i popoli europei per formarne un altro, gigantesco e astratto, senza, e qui possiamo dirlo, radici e senza coscienza di sé.

Tutto questo perché la nazione raffigura un valore indispensabile di fronte alle sfide determinate dalla deriva dei nuovi integralismi, dallo sviluppo delle attuali forme di comunitarismo e di regionalismo locale, dalla costruzione progressiva dell’identità fumosa europea, dalla mondializzazione dell’economia che si arrampica sul perbenismo lobbistico.

Poi avvengono i fatti come quelli che legano per sempre la nostra Storia all’evento che cambia tutto o che illude al cambiamento. Ma si sa che il veleno se non ti uccide sul colpo, resta addormentato nel nostro sangue. Come quello che viene identificato come la trattativa tra Stato e Mafia. Con la sentenza con cui giovedì 23 settembre la Corte d’Appello di Palermo ha assolto l’ex Senatore Marcello Dell’Utri e gli ex Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ribaltando la sentenza di primo grado nel processo sulla presunta trattativa, di fatto i giudici hanno ritenuto vero che la mafia tentò di piegare lo Stato con gli attentati dei primi anni Novanta, e che dialogò con gli ufficiali imputati.

Ma questi ultimi, dice la sentenza, lo fecero per ragioni investigative, e non esercitarono pressione su politici e Ministri perché cedessero alle richieste mafiose. Che storia è e che storia sarà ancora nessuno lo può più dire. Resterà un’altra pagina dei nostri misteri irrisolti. Una altra ombra che aleggerà sulle nostre teste mentre solo un cielo terso ci farà credere di essere tutti sotto la stessa volta.

Andiamo indietro nel tempo: il primo a parlare di “trattativa” è stato il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, nel 1996. Egli affermò di averne sentito parlare Totò Riina, fra le stragi Falcone e Borsellino. Su queste dichiarazioni si sono basati i PM di Palermo e Caltanissetta nel 2009, dopo aver raccolto le parole di Massimo Ciancimino. La Procura lo chiamò a deporre nel processo che vide imputati il Generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu di favoreggiamento aggravato nei confronti di Bernardo Provenzano.

Oggetto del processo Mori è il mancato blitz del 31 ottobre 1995, che secondo il Colonnello Michele Riccio avrebbe potuto portare all’arresto di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, centro della provincia di Palermo, grazie alle rivelazioni di un boss confidente.

La prima udienza del processo sulla cosiddetta ‘Trattativa Stato – Mafia’ ebbe luogo a Palermo il 29 ottobre 2012, grazie al lavoro dei PM Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Sedettero al banco degli imputati cinque membri di Cosa Nostra, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, e cinque rappresentanti delle istituzioni, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, per il reato di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Al di là della sentenza, della chiarezza del suo dispositivo, oggi questa storia riscrive una epoca e non trasforma quel vuoto e quel silenzio d’orrore in una verità rovesciata. Il bianco non resta bianco e il nero non si è affievolito. Tutto è sfumato, tutto è sopra ogni cosa in un mix dove la polvere dell’oblio è l’unico elemento da scongiurare.

Perché la verità non può essere brutalizzata da una legge, da una logica, da una ossessione. La verità merita ansia e rispetto, deve farci vergognare ed esaltare quando occorre.

Qui pare come se ci trovassimo di fronte ad una sentenza Rubicone con lo spauracchio di leggere una ri-descrizione degli eventi che dal 1992 hanno stordito le nostre coscienze.

Siamo certi che questa decisione consegna non solo l’onore agli imputati assolti ma anche al nostro Paese?

Dovunque la vogliamo leggere, la situazione è claustrofobica e buia, o grigia come avrebbero detto Falcone e prima di lui Sciascia: o abbiamo seguito gli spettri di un impianto di indagine che voleva vedere in maniera univoca solo ombre e sospetti oppure abbiamo di nuovo perso l’occasione di fare luce su un altro periodo oscuro.

Una cosa è certa e vale per tutti, a mio avviso: la verità non la si deve pretendere da un’aula di giustizia. Essa merita più respiro e più sostegno. Quello che ancora ci trascineremo è una altra guerra civile tra la magistratura, gli intellettuali, la politica, il giornalismo di questo Paese.

Uno scontro senza quartiere tra i sostenitori della teoria dell’anti-Stato, quello fellone pronto a trattare e a stringere un patto con gli stragisti e di fatto consegnare alla morte Paolo Borsellino, e quelli della denuncia dello strabismo della via giudiziaria alla scrittura della Storia.

Non so chi deciderà su questa altra pagina: se sia stata messa a nudo di nuovo la verità ridotta a miserabili brandelli o se, invece, si è riusciti a ridare dignità a chi è stato gravemente offeso e trattato come un delinquente ed assassino. In entrambi i casi è tardi, molto tardi. Ai posteri capire se si è sviluppato un nuovo schifoso “rompere le righe” o un picaresco “la pace torni a regnare”.

Ecco, forse, ci vorrebbe una trattativa tra le nostre generazioni e la prossima per capire cosa resterà di questo Paese e delle sue vergogne.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.