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Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?
Nanni Moretti in ‘Ecce bombo’

Potrebbe sembrare banale affermarlo ma le ultime elezioni hanno decretato un vincitore di queste elezioni: è il partito dell’astensione. I numeri alla chiusura dei seggi hanno dato l’affluenza alle urne poco sotto il 64%, nove punti in meno rispetto alla scorsa volta, il minimo storico.

È decisamente un’Italia che dal 1992 a oggi ha perso circa 12 milioni di voti. Una popolazione che rigetta sempre più in massa di farsi rappresentare politicamente, e il cui rapporto con i partiti è fragile e, di conseguenza, molto mobile.

Del resto, la scarsa partecipazione per queste elezioni politiche riflette una tendenza cominciata già da diversi anni. La modalità con cui vengono comunemente presentati i risultati elettorali, con le percentuali che indicano il consenso dei partiti in rapporto al totale di chi ha votato, può essere molto sviante.

Questo vale soprattutto quando l’astensionismo è dilatato e, ancora di più, quando è diffuso e in rapido aumento rispetto alle precedenti elezioni: domenica hanno partecipato solo 4,5 milioni di persone in meno rispetto al 2018. 16 milioni di elettori, il 36% del totale, hanno deciso di non andare ai seggi.

Se consideriamo soltanto le percentuali ottenute dai vari schieramenti si corre il rischio di sovrastimare il sostegno di un determinato partito che magari si è mantenuto sullo stesso livello del 2018 ma in realtà ha perso un bel po’ di voti.

In altre parole, si potrebbe tramutare in successo e commentare come tale un risultato che, se espresso in termini assoluti, evidenzierebbe, come in generale, i partiti abbiano oggi molto meno sostegno rispetto a un tempo.

Più in generale, il pericolo è di fare valutazioni che non consideri come soggetto della vita democratica di un paese la sua intera popolazione, ma solo chi di volta in volta decide di andare a votare. E che in questo modo si tenda, più o meno implicitamente, a dare per scontato che il perimetro entro il quale possono agire i partiti per quanto riguarda la costruzione del proprio consenso sia al massimo quello di chi partecipa alle elezioni.

Quello che è successo il 25 settembre rappresenta una delle problematiche meno indagate nell’ambito degli studi sulla partecipazione politica, ma allo stesso tempo più carica di conseguenze: per l’appunto, l’intermittenza elettorale. Una quota crescente di elettori ha iniziato a adottare atteggiamenti differenziati tra un’elezione e l’altra, determinando di votare o di sottrarsi al voto a seconda delle circostanze.

Si tratta dei cosiddetti votanti o astensionisti irregolari che, in una situazione di scarsa mobilità dell’elettorato tra gli schieramenti, possono risultare decisivi nel condizionare l’esito finale.

Perché l’incremento quasi ininterrotto del non voto negli ultimi due decenni in Italia ha riguardato tutte le consultazioni, sia quelle politiche sia, soprattutto, quelle regionali ed europee dove il fenomeno ha raggiunto dimensioni considerevoli. Si caratterizza in modo più marcato un astensionismo alle elezioni di secondo ordine.

Questo importante elemento di novità sta ad indicare che i comportamenti degli elettori sono diventati sempre più irregolari. Eppure, votare è un dovere, un dovere civico, il che sta a indicare che non è un obbligo sanzionabile ma non per questo meno cogente sul piano civile. È anche un diritto, ma lo è, rispondono in coro gli astensionisti, anche il non voto, nel senso che è assolutamente legittimo non recarsi alle urne.

Non si può certo scongiurare di ritenere le cause dell’astensionismo come espressione di fondo di una generale sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni dovuta al cedimento morale e a comportamenti esplicitamente disonesti, emersi soprattutto dopo Tangentopoli, proseguite nella Seconda Repubblica e oltre; all’ignoranza straripante in Parlamento che ha fatto dell’incompetenza politica, per assurdo, un valore; alla somiglianza tra proposte e idee dei vari schieramenti che induce una sostanziale indifferenza alla vittoria dell’uno o dell’altro, in termini di ricaduta sulla vita della maggior parte delle persone.

Le ragioni per non andare a votare ci sono e sono forti. Senza dimenticare quanto abbia potuto incidere il corso di una pandemia che ha amplificato la nevrosi di un elettorato già stanco e, forse, irrimediabilmente sfiduciato. Bisognerebbe comprendere le motivazioni, il che non è semplice, perché le ragioni sono tante e non sempre comodamente interpretabili.

Una parte si spiega con il cosiddetto astensionismo involontario, che riguarda le persone molto anziane, sempre di più in Italia, o con difficoltà a muoversi, oppure ancora chi è lontano dal comune di residenza al momento del voto per ragioni di studio o di lavoro, quasi cinque milioni di persone. Sono tutti problemi che potrebbero aumentare nei prossimi anni, sia perché la popolazione è mediamente più vecchia, sia perché le persone si spostano maggiormente per lavorare o studiare.

Molto dipende da diversi fattori socioculturali, politici e istituzionali: le precarie condizioni economiche e la marginalità sociale portano le persone a essere maggiormente sfiduciate e a non sentirsi rappresentate da nessuno.

Una parte dell’astensione si spiega anche con la comunicazione dei sondaggi e dei pronostici: una parte dell’elettorato, rassegnata di fronte alla prevista sconfitta, decide di non andare a votare. Insomma, non credo che le cause possano essere identificate solo nell’abitudine a partecipare esclusivamente alle tornate elettorali ritenute più importanti, nella la forte somiglianza tra proposte e idee dei vari candidati e delle diversi coalizioni ed, infine, la crisi dei partiti, i quali ormai non riescono più a mobilitare gli elettori e portarli alle urne.

Credo che manchi la socialità reale della forza politica, mancano le sezioni, manca l’impatto concreto sulla quotidianità della gente comune con i suoi stenti e le sue urgenze, manca il confronto, manca la leadership.

Bisognerebbe indurre o accrescere la polarizzazione: i leader e partiti interessati devono attraverso canali diversi produrre più soluzioni politiche possibili, magari riuscendo a mettere a punto un programma che crei prospettive e speranze tali da attrarre certi settori dell’indifferenza, toccando interessi e sensibilità percepite da quegli elettori potenziali, anche se quei programmi rimarranno sulla carta magari perché superati da urgenze sopravvenute.

Da carta straccia qualcuno potrebbe dire ma sempre meglio di parlare di un sistema politico composto da molti ex voto. Perché, alla fine, stiamo vivendo in un tempo che si caratterizza per un discredito diffuso nei confronti della politica.

Essa non è più, come pensava Aristotele, l’arte delle arti, quella che rende possibile la vita della polis, ma è divenuta l’ombra triste di se stessa.

Ah, non essermi gettato nell’orgia dell’astensione!
Emil Cioran

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.