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E ora?

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E ora?


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Non sapremo subito quanto la pandemia ha realmente modificato il nostro stile di vita. Quanto ha alterato le nostre comuni abitudini, sradicando certezze e comportamenti consueti che appartenevano alla quotidianità.

Non sapremo subito quanto ha inciso nella nostra libertà personale, mutandone gli spazi e armando difese arcaiche che avevamo rimosso.

Cosa è cambiato nei nostri sentimenti, quali emozioni hanno più sofferto e ora si reggono in piedi spossate, quasi sopravvissute ad uno tsunami ingovernabile?

Eppur vero che il Covid-19 non è stata una guerra ma rispetto ad essa ha chiesto, soprattutto alle generazioni più anziane, di combattere contro un contagio e contro la solitudine, fino a comprendere ed accettare una distanza sociale che, fino a quel momento, era estranea alla loro esistenza.

La presa di consapevolezza della malattia, la paura del virus, le restrizioni forti delle libertà personali, la noia hanno sostituito la routine.
Le conseguenze della pandemia peseranno a lungo e il mondo in cui ci ritroveremo proiettati avrà poco a che fare con quello a cui eravamo stati abituati.

Ci siamo ri-trovati a giugno, mettendo alle spalle un fine inverno ed un inizio primavera incomprensibile. Abbiamo teorizzato una nuova vita chiusi nelle mura domestiche, affrontando le ore con letargico furore, confondendo la notte con il giorno. Abbiamo idealizzato nuove discipline filosofiche, credendoci smarriti e scoprendo che le antiche e consuete religioni, a cui affidavamo dannazione e salvezza, poco potevano fare di fronte alle verità che emergevano nello scontro civile che avveniva con e dentro noi stessi giorno dopo giorno.

Abbiamo smascherato le priorità, abbiamo capito che cosa significasse restare a guardarci negli occhi senza scappare, senza fuggire dalla pesantezza del confronto, dall’urgenza di una criticità.

Qualcuno è tornato indietro ai propri passi: riscoprendo la famiglia, i figli e la moglie o il marito; ha sentito la nostalgia e il peso di avere genitori anziani e fragili. Ha capito che un abbraccio è vero, è sentito, è speciale quando solo due braccia si incrociano e si chiudono.

Si è compreso che la tecnologia è importante e può dare supporto, può contribuire allo sviluppo e al progresso di questa debole umanità, ma nessuna piattaforma social ti dona il gusto e la felicità di una carezza, di un bacio, di una parola sussurrata mutando il pianto in un sorriso che sa di rinascita.

Qualcuno ha sognato di più o ha creduto di farlo con maggiore intensità: ha cullato la speranza e ha analizzato gli incubi, ha attraversato tunnel neri, dando la mano al fantasma di se stesso, ha corso disperato praterie sterminate ma realizzando, soltanto alla fine, di essere passato da una camera all’altra di casa sua.

Abbiamo sognato una Nazione diversa, rivalutando figure professionali che, normalmente, avremmo messo al rogo. Abbiamo innalzato stendardi e tricolori, cantato “trottolino amoroso” fuori al balcone mentre la Protezione Civile ci falcidiava sullo stato dei contagiati e dei decessi. Poi ci siamo evoluti: siamo diventati runner che ossessivamente pretendevano libertà come quella che potevano sfruttare i proprietari di cani e animali da passeggio. Volevamo la strada, più dei “guerrieri della notte”, cercavamo la boccata di ossigeno quotidiana inventandoci la necessità di tenere in forma il nostro fisico da atleti in dimissione. Passando da “artigiani della qualità” a “nuovi Bolt”.

L’impegno più gravoso è stato quello di passare da una modalità relazionale imperniata dalla vicinanza fisica, a una in cui questa è stata negata, vidimata dal bollino nero del rischio. Colpendo l’intimità, rivalutando l’incognita virtuale, scendendo a compromessi con la diversificazione e mostrando a tutti i familiari l’ambiguo lato oscuro del nostro io, con lo sforzo di sentirsi reclusi e isolati dalla vita esterna, dalle costruzioni relazionali che consentono la legittima socialità.

Quanto ha inciso sul lavoro: molti – i più fortunati se mi è concesso – hanno continuato la propria attività lavorativa in smart working, affrontando dinamiche in chiaroscuro, cercando riparo nelle logiche abituali dei processi conosciuti della loro mansione, adattandosi in spazi stretti e, spesso, obbligando i propri familiari ad una partecipativa collaborazione targata “non disturbare”.

Quello che saremo, lo capiremo non in un tempo breve: dobbiamo fare i conti con quanto abbiamo seminato o distrutto in questi mesi di limbo, con quanto ancora stiamo scontando in chiave economica, con una ripresa che potrebbe vedere scomparse tutte le ritualità a cui eravamo legati, con un deglutire lento dell’amaro calice del post-guerra.

Chiunque di noi in questi mesi ha fantasticato sul futuro: ha inventato nuovi scenari di vita, ha riflettuto su quanto siglato sinora, ha rivisto la propria posizione sociale. Molti oggi si sentono dei sopravvissuti, molti oggi sono ancora oggi i dispersi. Chi siamo e cosa faremo forse sono le domande più semplici e dirette, ma anche le più ardimentose e ostiche a cui fornire una risposta decisa ed esemplare.

Il tempo ha vinto ancora. Si è dilatato, poi si è frantumato. Si è ricomposto e ha di nuovo scandito gli attimi, illudendoci dell’eternità, disincantandoci della sua trasversalità. La certezza è che non si può più tornare indietro, nulla sarà più come prima. La ricostruzione era speranza ieri, oggi è già chimera.

Qualcuno ha ricordato che la Peste Nera ha contribuito a porre fine al feudalesimo e la Spagnola alla nascita dell’assistenza sanitaria universale. Cosa cambierà ora in questa nostra società? All’orizzonte nessuna rivoluzione, le grandi economie politiche cercano di sostenere le famiglie e le aziende per evitare ogni collasso che comporterebbe un caos infinito. Basterà non so, certo che se pensiamo che i disoccupati sono poco più di un milione e mezzo e che l’effetto lockdown ha fatto scendere del 24% la ricerca del lavoro, abbiamo da restare in allarme.

Un calo di persone con un lavoro che paradossalmente e contestualmente porta anche una drastica diminuzione del tasso di disoccupazione, che scende dall’8% al 6,3%. Tra i giovani, invece, è al 20,3%, con meno 6,2 punti. Una situazione decisamente incredibile ma che ha un suo perché: sono, infatti, diminuite le persone in cerca di un impiego.

Riporto fedelmente: il calo, un pesante -484 mila pari al 23,9% rispetto a marzo, si ripercuote inevitabilmente anche sul numero di inattivi, cioè sul numero di persone, ben 746mila unità, che non hanno un lavoro e né lo cercano. Il tasso di inattività, quindi, si attesta al 38,1%, +2%.

Ma dai dati forniti dall’ISTAT emergono anche altri importanti indicatori della difficile situazione economica che sta attraversando il nostro Paese. In questa prima fase, la crisi ha colpito più duramente le donne, -1,5%, degli uomini, -1%. In un solo mese è calato di quasi un terzo il numero di donne in cerca di un impiego, -30,6% pari -305mila unità, rispetto agli uomini, -17,4%, pari a -179mila.

Il calo riguarda tutte le classi di età. Nessuna cura e nessuna austerity: abbiamo persone che non cercano lavoro, abbiamo disoccupati cronici, abbiamo ancora la donna da ruota del carro. Nulla cambia se non peggiora, insomma. Il rischio di un socialismo di stato, che protegga l’economia monopolizzando ex novo i compartimenti principali come sanità, energia, telecomunicazioni, facendo muovere i cittadini come pedine di una dama interminabile, tutti utili alla causa lavorativa, eliminando intermediazioni e mercati e produzione di scambi, credo sia ampiamente scongiurata ma non irrealizzabile.

Si è affermato che

è possibile che il socialismo di stato emerga come conseguenza dei tentativi di instaurare un capitalismo di stato e come effetto di una pandemia prolungata.

Uno scenario limite e antidemocratico che potrebbe divenire realtà, immagino, negli stati con economie ferme e debiti avanzati. Va da sé che, secondo gli ultimi approfondimenti e le più coerenti previsioni, il PIL quest’anno subirà una caduta dell’ordine del 10%, non ha precedenti storici in tempo di pace, con taluni settori completamente falcidiati in termini di valore aggiunto e occupazione, come la ristorazione, gli alberghi, il turismo, i trasporti, gli spettacoli, l’arte e la cultura. L

‘azione dello Stato atta a fornire appoggio a lavoratori e imprese, genererà un aumento enorme sia del deficit, intorno ai 180 miliardi – con un’incidenza maggiore del 10% del PIL, sia del debito pubblico, che salirà al 160% circa del PIL. Senza questi interventi, l’alternativa sarebbe probabilmente il default. Il quadro dell’economia comporta suggestioni negative ma non bisogna lasciarsi prendere dal panico, perché la scaletta delle priorità è ampia e merita attenzione.

C’è da riorganizzare la vita artistica, c’è da foraggiare un turismo in agonia, rimodernare le città che dovranno corrispondere ad un nuovo concetto di vita, c’è da liberarsi della burocrazia per permetter, finalmente, alla tecnologia di fagocitare la montagna di carta superflua, c’è da riprogrammare la casa che diventerà anche ufficio, costruire un nuovo modello didattico che conquisti la relazione a distanza.
Su questo ultimo punto, avverto poco urgenza e mi preoccupa.

La nostra scuola è costruita sulla relazione, sul confronto, su una didattica poco essenziale e quasi per niente semplificata. I docenti dovranno fronteggiare le insidie dell’online e non possiamo permetterci più di avere una scuola di seria a e una di serie b. Dovranno, quanto meno all’inizio, essere tutte messe nelle condizioni di esprimersi e far esprimere al meglio i discenti, scongiurando il pericolo dell’omologazione senza meritocrazia.

Il corpo insegnanti utilizza una metodologia che predilige la conoscenza e non la competenza; qui partiamo già con l’handicap che in ambito digitale vi è un gap elevato che si scontra con una generazione che ama la tesina stilata da Google, che raggiunge il sapere senza sentire l’odore meraviglioso dei fogli di un libro ma, amaramente, ricercando con onanistica venerazione ogni sapere attraverso Internet, sfruttando una iper-connessione analfabetica.

Utilizzeremo, forse, una metodologia mista, contenendo le doverose misure di sicurezza in una strategia didattica il cui coefficiente di errore è alto. L’insegnamento è un mestiere profondamente situazionale, in cui qualità e quantità sono concetti astratti: è richiesta la capacità di sintetizzare una serie di aspetti che portano al giudizio. E noi, oggi, guardiamo più al voto che al contenuto del giudizio, siamo figli del multitasking e abbiamo dimenticato Voltaire.

Avverto una fragile speranza, sento serpeggiare poca e per niente robusta focalizzazione su un tema urgente perché stiamo parlando di formare la prossima classe dirigenziale, politica e culturale. E li stiamo facendo sedere su sedie di argilla, pretendendo una ottimizzazione di una istituzione già malata, per niente indipendente e poco proiettata, già di suo, nel futuro.

Lavoro, scuola, processo di digitalizzazione e sanità: sono i pilastri che se fortificati oggi, ci consentiranno di sopravvivere a nuovi tsunami di domani.

Torneremo alla normalità? Ammesso che quella normalità fosse la vita migliore attesa, non possiamo dimenticare che nel pre-Covid avevamo molti settori in efficienza, che producevano lavoro e facevano correre la nostra economia. Non era la vita migliore ma, almeno, per molti italiani risparmiava la fame, la paura e la fila al banco dei pegni.

Andrà tutto bene, dicevamo, speravamo. E ora?

La crisi non è irreversibile, l’umanità ha affrontato disastri, forse, peggiori; ma, non va sottovalutato, nessuna guerra ha messo fine alle abitudini e ha rivoluzionato il costume e l’economia in maniera così determinante come potrebbe aver fatto questa pandemia. Forse, è vero che oggi dobbiamo capire che dovremmo cambiare prima noi stessi, poi il mondo.

La rivoluzione stanca e non ci rende sempre guerrieri da t-shirt ma questa potrebbe essere la più significativa nella nostra storia.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.