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Scrivere è contaminazione

2033
Scrivere è contaminazione


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Questa è una delle lezioni cui tengo in maniera particolare, poiché riguarda il mio modo di intendere la scrittura. Diciamoci la verità, leggere a volte può essere di una noia mortale.

Lo so, sono stato proprio io a parlarti dell’importanza della lettura, che continuo a ritenere un’attività meravigliosa, oltre che propedeutica per chi voglia cimentarsi con la scrittura. Ma se ricordi, avevo rivendicato, anzi, è stato Pennac, il diritto di non leggere e di scegliere cosa leggere.

Voglio regalarti un piccolo segreto. Un autore non si limita a scegliere cosa scrivere: può e deve scegliere come scrivere. È secondo me una forma di rispetto nei confronti dei lettori che acquistano il suo libro, un accordo fra gentiluomini: col tuo acquisto, tu lettore contribuisci al mio sostentamento, o a far conoscere il mio nome, e io, in cambio, prometto di intrattenerti. Non è molto diverso da andare al cinema, a un concerto o a una partita di calcio. Magari tu spendi 30 euro per un derby che promette spettacolo e gol, e poi te ne torni a casa dopo uno scialbo zero a zero.

Sono uno scrittore e un editore, ma prima di tutto un lettore, pertanto detesto comprare un libro e ritrovarmi a leggere un polpettone. Il segreto per evitare di scrivere un polpettone è questo: a volte, per scrivere bene è necessario scrivere male. Ok, è una frase a effetto, ma che vuol dire?

Come disse Fantozzi, l’italiano è una lingua maledetta. Con questo intendo dire che è molto, molto difficile, piena di regole, eccezioni, tempi, modi… ad esempio, io lo so che la prima persona singolare del passato remoto del verbo “cuocere” è io cossi, ma se scrivo “cossi” in un testo mi arrivano i pomodori fino a casa!

Quello che cerco di farti capire è che esistono molti linguaggi in una sola lingua. C’è l’italiano accademico, quello che si parla nelle famiglie, il linguaggio dei giovani e quello degli anziani, il gergo sportivo, il linguaggio tecnico di una certa disciplina. Sono sicuro che un testo scritto in un italiano ineccepibile dal punto di vista grammaticale e ortografico farebbe gongolare un Accademico della Crusca. Ma se quel testo fosse un libro, tu lo leggeresti con piacere? Dipende. Forse per un saggio sarebbe la miglior scelta lessicale, ma se fosse un romanzo?

Un romanzo che parli come un libro di grammatica io lo rispedisco al mittente. Ho già dato quando andavo a scuola. La narrativa deve parlare un linguaggio attuale, vivo. Frutto della sperimentazione o, come dico io, della contaminazione.

Uno dei miei cavalli di battaglia, che ripeto come un mantra ogni volta che qualcuno ha l’insana idea di chiedermi cosa sia per me la scrittura, è il seguente motto: scrivo libri, non bugiardini. Certo, se qualcuno mi chiedesse di scrivere il bugiardino di un antibiotico adopererei un registro tecnico e mi documenterei sui termini specifici del lessico medico e farmacologico, ma grazie al cielo io scrivo romanzi, sì, ho scritto anche un saggio ma… contaminato pure quello. Nessuno vuol leggere un romanzo formalmente ineccepibile. I lettori vogliono intrigo, emozioni, e vogliono un linguaggio realistico. Laddove realistico significa adatto al contesto.

Cosa intendo però quando parlo di contaminazione? Questa parola viene dal jazz e io, da ex musicista, l’ho fatta mia applicandola alla scrittura.
Il jazz, fra tutti i generi musicali, è quello più aperto, quello in cui l’improvvisazione, la rottura degli schemi e la sperimentazione rivestono un ruolo principale. Per me affermare “scrivere è contaminazione” significa proprio questo: mettersi in discussione, giocare con la lingua italiana, rompere gli schemi. Come si fa questo in concreto? Uff, hai voglia a quante possibilità abbiamo!

Giocare con l’italiano significa che possiamo, ad esempio, coniare nuovi termini o modi di dire; creare associazioni fra parole in apparenza inconciliabili; “sporcare” il linguaggio con termini stranieri o dialettali; o ancora, inserire di proposito errori nella narrazione se questo arricchisce il contesto. Tanto i lettori sono intelligenti, lo sanno che dietro un romanzo c’è un autore, uno o più editor che ne curano la stesura finale, e in genere un editore pubblica il libro solo quando è perfetto. Di norma, se c’è un errore è perché si è deciso di mostrarlo.

Un’altra mia battaglia è per lo sdoganamento delle parolacce in un testo narrativo. Questo non significa scadere nel turpiloquio, tuttavia io sono un fautore dell’utilizzo erudito della parolaccia e, soprattutto, la mia non è un’idea nuova: da Omero a Pasolini, passando per Dante e Shakespeare, tutti i più grandi l’hanno fatto.

Il perché è presto detto. Cos’è la narrativa? È la rappresentazione di un mondo parallelo. Un romanzo è una storia in cui personaggi di finzione si muovono in ambienti inventati. La narrativa è finzione, fiction, e ora non inorridire: non mi riferisco a quelle ciofeche che ci propina la televisione J

Questa finzione però dev’essere verosimile, somigliare alla realtà. In questo devo dire che sono un seguace del Verismo.

In verità il linguaggio di un’opera deve essere tarato su misura per la storia che si vuol raccontare, oltre che compatibile con il genere. Un racconto fantasy i cui “attori” siano elfi e nani non può parlare lo stesso linguaggio di un romanzo d’amore o di un thriller. Anche se sono tutti scritti nella stessa lingua. Se ricordi la lezione sui personaggi, i vecchietti di ‘Serial Kinder sono un gruppo di pensionati dal linguaggio assai colorito. Potevo mai farli parlare come dei fisici nucleari?

Ma veniamo al dunque: come si fa a sperimentare con la nostra lingua? Beh, la prima cosa che mi sento di risponderti è che per sperimentare è necessario provare, provare e provare. Rischiare. Provare cose nuove, difficili, sperimentare. Anche sbagliando. Il punto è proprio questo: se non sperimenti, non imparerai a fare niente di nuovo. Il tuo romanzo non dovrà essere un trattato di anatomia, perfetto e senza una smagliatura. Desidero che tu ti diverta durante la scrittura, in modo da produrre un testo bello.

La cosa più semplice da sperimentare è lavorare sulla struttura delle frasi. Come sai, il minimo sindacale che la grammatica impone è l’utilizzo di soggetto, verbo e predicato. Elementi che abbelliscono la frase possono essere gli aggettivi e gli avverbi. Nella seguente frase:

Maria guarda il cielo nuvoloso

l’aggettivo “nuvoloso” arricchisce la frase e ci permette di capire come fosse il cielo nel momento in cui Maria l’ha guardato. Ma attenzione, se scrivo:

Maria guarda le nuvole

sto dicendo la stessa, identica cosa. Comunico al lettore cosa sta facendo Maria, e che nel cielo ci sono le nuvole. Ma ho evitato di scrivere un aggettivo.

Ne abbiamo già parlato, fin dalle primissime lezioni: gli aggettivi vanno utilizzati con parsimonia. Si ritiene, e si sbaglia, che rimpinzare un testo di aggettivi sia sinonimo di buona scrittura, per la convinzione errata che una descrizione con molti aggettivi sia più accurata di una che ne presenta pochi. La seguente frase non è errata, ma mi fa storcere il naso:

Osservava il mare verdognolo, increspato e agitato

I gusti sono soggettivi, ma per me una frase del genere mostra un autore insicuro dei propri mezzi, uno che pensa che mettere tre aggettivi l’uno dietro l’altro sia una cosa normale. O, peggio ancora, che renda migliore il suo testo.

Osservava il mare increspato a mio modo di vedere è molto meglio.

Altro errore tipico degli autori inesperti è una formula sulla quale incespicano sempre i miei allievi durante le esercitazioni:

Sostantivo + aggettivo + congiunzione + altro aggettivo.

Un muro spoglio e incrostato
La lavatrice vecchia e guasta
Un appartamento piccolo ma funzionale

La regola d’oro è: dopo aver inserito UN aggettivo, rileggi la frase. Se non è indispensabile per specificare meglio la natura dell’oggetto cui si riferisce, toglilo.

Non bisogna credere che gli aggettivi abbiano una funzione decorativa. Sono parole, elementi costituivi di una frase e hanno una loro dignità! Metafora: utilizzare troppi aggettivi equivale ad arredare una parete con un sacco di gingilli che non hanno alcun senso, non servono a niente; non arredano, non abbelliscono la casa. Semmai la imbruttiscono. Non vorrai mica scrivere un racconto kitsch?

Ricordi a scuola? Ci parlavano di “aggettivi qualificativi”: bene, la funzione dell’aggettivo deve essere proprio quella di qualificare il sostantivo cui è legato. Se sto scrivendo di un pescatore preoccupato perché si sta mettendo in barca con la bufera, posso scrivere:

Luigi detestava pescare col mare agitato

mentre se ometto l’aggettivo non si capisce per quale motivo Luigi debba essere teso per quello che è il suo lavoro. In questo caso, l’aggettivo “agitato” qualifica il sostantivo “mare” e chiarisce il senso della frase.

La stessa cosa vale per gli avverbi, in particolare quelli di modo terminanti in “mente”. Quante volte ne abbiamo già parlato? Ora è giunto il momento di spiegartelo meglio. Prima però prova a intuire la differenza fra queste due frasi:

Francesca rientra a casa velocemente
Francesca rientra a casa a passo spedito

Entrambe ci indicano che Francesca va di fretta. Quale è meglio usare delle due? Ok, se hai risposto la seconda, hai sbagliato. In verità era una domanda a trabocchetto. Vedi, non è che un giorno noi editori ci siamo svegliati la mattina e abbiamo deciso di mettere alla gogna tutti gli avverbi che finiscono in “mente”. C’è un motivo, più che valido, e fra poco te ne parlerò. Prima tuttavia devi cogliere un’altra sfumatura: togliere un avverbio e sostituirlo “tanto per”, a volte è peggio che lasciarlo! Cosa vuol dire che “Francesca torna a casa a passo spedito”? Che significa in italiano, possiamo quantificare quanto veloce sia Francesca? È davvero migliore la seconda frase, è arricchente rispetto alla prima? No.

Bisogna evitare anche le perifrasi:

Mario mangia rapidamente
Mario mangia in tutta fretta

Io, queste due frasi, le boccio entrambe, e sai perché? Perché nessuna delle due mi mostra quanto velocemente mangi questo Mario, quanta fretta abbia.

E allora eccoci giunti alla risoluzione del “mistero”. Perché bisogna evitare quel genere di avverbi? E perché non basta sostituirli con qualcosa che a volte è addirittura peggiorativo rispetto alla situazione originale?

Abbiamo toccato tante volte un paragone, quello fra la letteratura e il cinema. Sai qual è la differenza fra queste due arti? Il destinatario dell’opera, cioè il lettore per la prima, lo spettatore per la seconda.
La differenza è molto semplice: nel cinema, lo spettatore vede con i propri occhi quello che succede; nella letteratura, il lettore non vede. Può solo provare a vedere con gli occhi della mente, ma non è detto che basti. Allora sei tu, autore, a dover fargli vedere le cose. Devi diventare, attraverso la parola scritta, gli occhi del lettore.

Torniamo a Francesca. Poniamo il caso che abbia davvero molta, moltissima fretta di rincasare. Perché? Beh, dipende dal contesto della storia: forse ha lasciato il gas acceso, oppure deve recuperare il telefono e poi tornare di corsa alla fermata del tram, oppure ieri sera ha mangiato pasta e fagioli e deve sedersi subito sul water.

Se Francesca fosse l’attrice di un film, la vedresti correre a perdifiato, salire le scale di corsa, col volto rosso e l’affanno. Magari una musica incessante sarebbe la perfetta colonna sonora per mostrare il suo piccolo “dramma”, rientrare in casa il prima possibile. Ma in un testo narrativo? Come fai a rendere tutto ciò, se il lettore non può vedere né sentire quello che succede alla povera Francesca? E, di riflesso, può bastare scrivere che torni a casa velocemente o a passo spedito? Certo che no.

Gli esempi per mostrare la fretta di Francesca sono infiniti. Si va dalla frase secca:

Francesca salì i gradini delle scale, due alla volta per fare prima

a qualcosa di più elaborato, come:

Francesca si fiondò nell’androne del palazzo senza rispondere al saluto del portinaio che l’aveva chiamata dalla guardiola. Corse fino all’ascensore, che trovò occupato, e in una frazione di secondo decise di optare per le scale, risalite due gradini per volta fino al terzo piano. Lì trovò un ostacolo inaspettato, il deretano della signora Falcinelli, che s’aiutava col bastone per non perdere l’equilibrio. Fremendo, sbuffò fino a quando la vicina di casa non ebbe raggiunto il pianerottolo, dopodiché la doppiò come una McLaren di fronte a una Ferrari e riprese la scalata sull’ultima rampa che la separava dalla porta del suo appartamento.

Entrambe le soluzioni le ho inventate sul momento, e chiariamoci: non sono niente di speciale. Ma, sia nella frase singola che nel paragrafetto, sei riuscito a “vedere” Francesca? Hai potuto percepire la sua premura?

Perché allora limitarsi a scrivere “velocemente”, o “a passo spedito”, o che “Francesca aveva fretta”? Sì, Francesca aveva fretta, alla fine della fiera il messaggio comunicato al lettore è lo stesso. Ma ricorda: gli stai offrendo uno spettacolo, devi intrattenerlo. Se non hai voglia di raccontare, se non vuoi mostrare a chi legge quel che succede, allora meglio chiudere Word e riprendere il giorno dopo.

E un’ultima cosa: evita, per favore, i cliché, i luoghi comuni, gli stereotipi, le frasi fatte o i modi di dire troppo inflazionati. Non farmi leggere, per cortesia, di silenzi assordanti o di idee a prova di bomba. Hai la tua fantasia e il vocabolario della lingua italiana: è tutto ciò di cui hai bisogno per scrivere.

Ma come, William, prima dici che devo sperimentare e poi scrivi “non fare questo, non fare quello”? Provo a spiegarmi. Abbiamo un dizionario fra i più ricchi del pianeta, che ci offre infinite possibilità di combinare termini, sinonimi, modi di dire. Eppure spesso tendiamo a esprimerci con un vocabolario limitato. Se le parole italiane non ti bastano, ci sono quelle straniere entrate nell’uso comune: karate, internet, yoga e via dicendo. Non ti basta? Recuperiamo le espressioni dialettali, le nostre radici. Dici che il dialetto è cafone? Dipende da chi e da come lo utilizza. Vuoi farmi credere che Trilussa scriveva poesie brutte? E immagino ti abbiano raccontato che la Divina Commedia sia stata scritta in volgare, cioè la lingua del popolo.

Vuoi sapere dov’è che puoi davvero sperimentare e rendere incisiva la tua scrittura? Secondo me l’elemento più importante nel linguaggio, quello che può dar senso a una frase e cambiare o arricchire un paragrafo, è il verbo. Saprai di certo che “verbo” deriva dal latino verbum, che significa “parola”. I verbi sono le parole per antonomasia, senza verbi non è possibile costruire una frase di senso compiuto. Ebbene, è con i verbi che possiamo davvero divertirci.

Non usare i soliti verbi: dare, andare, dire, fare. Prova i vari sinonimi. Vogliono dire la stessa cosa, ma hanno ciascuno una differente sfumatura che può dare alla tua frase un significato ben preciso, oltre che aggiungere qualità al testo:

Ti do la mia fiducia
Ti dono la mia fiducia
Ti investo della mia fiducia

Riesci a percepire la differenza? La prima frase è piatta. Nella seconda il verbo utilizzato suggerisce una certa generosità da parte della persona disposta a regalare la propria fiducia al suo interlocutore. Nella terza frase invece siamo quasi in presenza di un “rito solenne”, c’è una sacralità nella quale il secondo soggetto è passivo e subisce un’investitura formale che lo obbliga a un’assunzione di responsabilità. Ma non è finita qui. La vera sperimentazione, quella che io chiamo “contaminazione” avviene quando impieghi dei verbi che in apparenza non c’entrano niente nella frase o nel contesto in cui appaiono. Provo a illustrare qualche esempio:

Vide un gabbiano nuotare nell’azzurro

È chiaro che i gabbiani non nuotano, ma chi ci impedisce di colorare la frase in quel modo? Magari l’autore voleva enfatizzare il movimento sincrono delle ali del gabbiano, simile alle braccia di un nuotatore in piscina.

Gli avvoltoi si avvitarono sulla carcassa della gazzella

Sono forse delle viti? Certo che no, ma con un solo verbo ho sintetizzato il movimento degli avvoltoi, il loro caratteristico volo circolare e discendente mentre si avvicinano al corpo di un animale morto.

Il maresciallo schiaffeggiò l’appuntato attraverso la cornetta

Sì, non si può schiaffeggiare nessuno via telefono, e sarebbe meglio non farlo mai, ma in questo caso il verbo comunica la rabbia di un superiore nei confronti di un subalterno.

Concludo parlandoti di quelli che io definisco deliri ma che possiamo far rientrare nella zona franca delle cosiddette libertà artistiche. Che è come dire: stai creando arte, prenditi tutte le libertà che vuoi.

Nella Cappella Sistina, Michelangelo dipinse un artista suo rivale, Biagio da Cesena, con tanto di orecchie d’asino. E questo solo perché aveva tentato, invano, di sottrargli l’appalto per affrescare la volta. Ricordi le lezioni iniziali, quelle sullo scrittore come artista? Quando scrivi stai creando, quindi esprimiti senza paure, senza limiti, senza paletti mentali.

E allora crea, prova, sbaglia, sperimenta. Lanciati in digressioni, ogni tanto spezza il ritmo della narrazione con un fuori programma rispetto all’andamento della storia. Perché la vita stessa è così, spesso accadono cose che non c’entrano niente, senza un vero motivo, ma ti cambiano la giornata o ti fanno sorridere per qualche minuto. Ti fanno evadere. E la narrativa, in quanto finzione, è evasione dalla realtà.

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Autore William Silvestri

Autore, formatore e direttore editoriale di Argento Vivo Edizioni. Prima di entrare nel mondo dell'editoria ha pubblicato i romanzi 'Divina Mente', 2011, 'Serial Kinder', 2015, e 'Ci siete mai stati a quel paese?', 2017, 'Io e la mia scimmia', 2019, oltre al saggio esoterico 'Chi ha paura del Serpente?', 2015.