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Chiediti se sei felice

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Felicità


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La felicità consiste nell’ignoranza del vero.
Giacomo Leopardi

Abbiamo diritto alla felicità?

La domanda è semplice ma complessa. Di primo istinto, diremmo che non ci sono dubbi. Certamente, tutti meritiamo di essere felici. Tutti abbiamo diritto a vivere con serenità, gioia e amore la vita che abbiamo a disposizione.

Non confondete la felicità con il sorridere. Ve l’ho scritto prima, la felicità è qualcosa di più complesso. Ecco, più precisamente essa viene scambiata con la completa e appagante realizzazione degli obiettivi, che genera in noi un senso di compiacimento, con la realizzazione di noi stessi e questo accade perché l’uomo comune tende ad immedesimarsi nelle sue azioni, nei suoi risultati.

Viviamo un’epoca logorante, dove tutto è misurato, schematicamente incasellato in un paradigma che è un algoritmo o una più semplice addizione. Siamo prodotti di noi stessi, è questo è drammaticamente vero.

Situati in un posto dove qualcuno ci tagga l’esistenza, vorremmo magari essere l’avamposto di una nuova civiltà ma finiamo per appartenere staticamente alla filiera dei burattini pronti a teatralizzare la parodia del nostro eterno recitare su di un palcoscenico ambiguamente feroce e teneramente illusorio.

Viviamo in un’epoca inquietante, dove la lotta è generata da elementi ancora oscuri della coscienza e da altri chiari, accidentali e meccanici della vita esterna, per cui non è più felice il vivere.

La vita, con un andamento di tormento, non permette più, come appena un secolo addietro, che risulta quale un’Arcadia lontanissima, di oziare in beatitudine tra amici saggi e divertenti.

Per qualcuno, essere felici significa realizzare i desideri più profondi: ovvio che se non abbiamo una visione chiara di ciò che siamo e di ciò che desideriamo non riusciremo mai a trovare la felicità; dovremmo quindi accontentarci di sentimenti simili ed affini ma non interscambiabili quali serenità, soddisfazione, gioia, contentezza, allegria, euforia.

Che la si intenda come unione con Dio, armonia con il cielo, liberazione o nirvana, non è frutto dell’azione o di un atto di volontà, quanto di un’esperienza interiore dello spirito. Mentre l’infelicità dell’uomo è radicata nel senso di angoscia che si accompagna alla sensazione di essere un individuo isolato, un io separato dalla ‘vita’ o ‘realtà’ totale, la felicità nasce con la percezione che il senso di isolamento è solo un’illusione.

Quella che sentiamo come una coscienza separata e individuale di fatto è identica alla realtà universale e indivisa di cui tutte le cose sono manifestazioni. La condizione dell’uomo contemporaneo sia strutturata per sostituire al mondo l’imitazione del mondo, all’espressione di sé l’esibizione di sé, alla narrazione lo storytelling, alla ricerca del senso della vita e di un livello sempre maggiore di benessere e visibilità.

Una società che richiede costantemente opinioni, condivisioni ed esibizioni è una società che ha paura del silenzio, dello spazio, della costruzione, e dunque di un’autentica narrazione. Perché raccontarsi oggi significa fare addizioni, sommare like e post e immagini, non lasciare che qualcosa di sacro emerga da qualche parte di noi che si trova davvero in profondità.

Come è bene vivere per ottenere la felicità?

Stando a quanto scrive Platone, è con questa domanda di Socrate che inizia davvero la filosofia. Eppure, nella storia del pensiero occidentale tale quesito è quasi assente. Gli stessi Greci, dopo averlo posto, l’hanno rapidamente dimenticato, interrogandosi piuttosto sull’essenza dell’individuo.

Perché siamo prigionieri della “trappola della felicità”, un circolo vizioso che ci spinge a dedicare il nostro tempo, la nostra energia, la nostra vita, ad uno scontro persa in partenza: quella contro i pensieri e le emozioni negative. Che è poi una battaglia contro la realtà e contro la stessa natura dell’essere umano.

Perennemente in lotta e perennemente sconfitti, dato che il controllo che abbiamo sui nostri pensieri ed emozioni è in realtà infinitamente meno di quanto la nostra cultura voglia farci credere, è inevitabile ritrovarsi spossati, frustrati e delusi di sé e della propria esistenza.

In un certo senso, il concetto di felicità per persone spinte all’azione dall’anelito verso il bene coincide con quello di sacrificio. Per quanto possa sembrare paradossale, vi sono al mondo individui la cui felicità dipende dall’avere uno scopo che trascende il limite del desiderio soggettivo, perseguito con abnegazione, grande dedizione ed interesse per le persone di cui sono responsabili.

E per costoro, ricercare una felicità basata sul desiderio di pace e sull’assenza di tormento equivarrebbe alla condanna ad un vissuto di limitazione e fallimento. È questa una condizione irrinunciabile per essere felici: darsi degli obiettivi compatibili con la nostra natura.

Per farlo dobbiamo essere in possesso del concetto del limite rappresentato dalla morte che ci costringe a pesare bene le nostre scelte sapendo che non sono infinite e prive di effetti.

Secondo Nietzsche, la felicità si identifica con la conoscenza, il dolore, la ricerca, la volontà di dare; quando si ha lievità, si ha la volontà di donare perché la felicità nel donare agli altri non impoverisce. In tale senso l’intellettuale tedesco fa spesso riferimento al sole che irradia, dà luce e calore, ma non ne perde.

La felicità è intesa come un evento che può accadere nella vita, che irrompe nell’esistenza di una persona e la domanda principale che ci poniamo è se veramente possibile essere felici nella vita.

Come ha scritto William James, filosofo e psicologo americano:

Ottenere, conservare, recuperare la felicità è per la maggior parte degli uomini, in qualsiasi epoca, il movente segreto di tutte le loro azioni e della loro capacità di sopportazione.

Essa va distinta l’inseguimento del piacere da quello della gratificazione: mentre il piacere è momentaneo e va incontro ai fenomeni di assuefazione e dipendenza che contrastano con lo stato di benessere, la gratificazione, pur richiedendo sforzi e costanza nel perseguirla, riempie la vita di significato.

Il piacere segnala il raggiungimento dell’appagamento biologico, mentre la gratificazione segnala il raggiungimento di una crescita psicologica.

Nel suo nesso con il desiderio la felicità rivela il suo carattere circostanziale, cioè il suo legame a condizioni di fatto complessive e transitorie, da cui dipende anche la sua caducità.

Il “problema” della “felicità” è, appunto, molto complesso e va analizzato tenendo conto della varietà di significati sia dal punto di vista semantico che dell’impatto individuale e sociale.

Ecco che potrebbe sembrare qualcosa che riguarda esclusivamente la sfera individuale, ma, occorre tenere bene a mente che oggi l’uomo vive in una dimensione “globale”, che costringe, di fatto, ognuno a guardare fuori di sé, oltre il circuito della propria esistenza.

E ricordiamoci che la ‘Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America‘ del 4 luglio 1776 inizia con un’enfatica dichiarazione:

Esistono verità per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c’è la ricerca della felicità.

Non esiste, quindi, un vero e proprio diritto alla felicità, piuttosto potrebbe parlarsi di un interesse costituzionale alla felicità, che è trasversale ai diritti in senso stretto: in altri termini, la felicità è la ratio di ogni diritto costituzionale.

Usando altre parole: il diritto alla felicità dovrebbe configurarsi come un corollario della tutela dei diritti inviolabili della persona e del principio personalistico, per cui se da un lato si tutela la persona umana in quanto tale, appare scontato che occorre tutelare anche lo stato emotivo in cui questa si sente pienamente realizzata.

 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.