Il processo che pose fine alle accuse di stregoneria nel Regno delle Due Sicilie
Uno degli aspetti più oscuri associati cultura medievale è la caccia alle streghe, ideata e perpetuata per secoli dal cristianesimo.
Una persecuzione disumana, che trae le sue radici nella ricerca disperata di una spiegazione a calamità naturali, malattie e carestie e, in seguito, associata anche ad episodi e comportamenti che si distaccavano dalle regole imposte al popolo ignorante, superstizioso e facilmente suggestionabile.
Ma quando terminò questa caccia spietata e crudele verso donne innocenti vittime del pregiudizio e della cattiveria umana?
La parola fine fu pronunciata dal re Ferdinando di Napoli in seguito al processo di una donna calabrese accusata dalla chiesa di eresia: Cecilia Faragò!
Era il 1770 l’anno in cui il sovrano firmò un decreto che pose fine ai processi di stregoneria in tutto il Regno delle Due Sicilie, una grande vittoria resa possibile grazie alla tenacia e alla fermezza di una donna che non si era piegata gli abusi di potere delle classi dominanti e alla straordinaria difesa del giovane legale che mise in discussione la credibilità delle accuse, dimostrando, con intelligenza ed affinate arti oratorie, l’innocenza della sua assistita.
Per comprendere appieno l’importanza della vicenda dobbiamo considerare che questa trama si colloca in un’epoca in cui la classe dominante spadroneggiava sui ceti più umili come quello a cui apparteneva la Faragò, una donna del popolo privata di tutti i suoi averi da due avidi sacerdoti.
Allora il potere era ancora incentrato nelle mani dei nobili, del clero e dell’alta borghesia, mentre la classe meno abbiente sottostava accettando la loro condizione imposta dalla volontà divina.
Ma il vento della rivoluzione iniziava a soffiare anche nei territori più isolati, insinuandosi nell’animo di chi si ribellava agli abusi di potere!
Era giunto il soffio dell’Illuminismo che, espandendosi, rompeva le catene, che obbligavano gli uomini, e soprattutto le donne, a rimanere vittime di uccisioni, arresti o accuse di eresia.
Cecilia Faragò apparteneva alla categoria sociale popolana ma di condizione più agiata, quella dei massari, che si distinguevano dai contadini servili perché erano proprietari di manso – da cui deriva il termine masseria – un appezzamento di terreno che permetteva un discreto tenore di vita e la possibilità di dar lavoro a braccianti.
Rimasta vedova, la Faragò dovette fronteggiare numerose difficoltà. Innanzitutto la sua condizione economica, poiché, in una società ancora patriarcale le donne non potevano avanzare nessuna pretesa legale sul lascito, se non una cifra modesta; l’eredità più sostanziosa, infatti, era incentrata nella figura del figlio minore, Andrea, poiché il maggiore aveva scelto di dedicarsi alla vita monastica.
Il figlio cadetto, però, non solo non possedeva la tempra materna, ma, ingenuo e di salute cagionevole, era più dedito alla salvezza dell’anima che al lavoro, tanto da trascurare gli affari di famiglia.
Due avidi sacerdoti del luogo, approfittarono oltremisura dell’ingenuità del soggetto e, in nome della salvezza della sua anima, che sentiva prossima al decesso, si fecero intestare tutti i suoi averi.
Come previsto, il giovane morì prematuramente, senza discendenti e i due truffatori non si accontentarono di tutta la sua eredità, pretendendo anche il poco destinato alla madre.
Cecilia, però, non si lasciò suggestionare dagli abiti talari e si oppose alla cessione dei beni, cercando di inficiare il lascito della concessione, manifestando palesemente l’ingiustizia e l’avarizia dei due uomini di chiesa.
Non ci furono esclusioni di colpi e, temendo di veder sfumare la possibilità di aumentare le loro ricchezze, i due curati misero in atto l’ultima carta, quella che avrebbe determinato la fine di ogni opposizione: l’accusa di eresia!
A quei tempi non era certo difficile trovare un pretesto, soprattutto in un ambiente rurale dove la superstizione regnava sovrana, e il carattere deciso dell’accusata non avrebbe certo deposto a suo favore.
Con la complicità “retribuita” di alcuni abitanti del piccolo paese, Cecilia Faragò venne accusata di stregoneria e imprigionata. La sua misera condizione, però, non la fece precipitare in una sofferenza remissiva, anzi, si adoperò per avere giustizia dalle accuse subite.
Imposta la scarcerazione dalla Regia Udienza di Catanzaro, decise di rivolgersi ad un legale.
A sostenere la sua causa fu un giovane avvocato appena ventenne, Giuseppe Raffaelli, il quale, sulla base si studi mirati in campo medico, giuridico e scientifico, smontò ogni accusa, associazione a pratiche magiche, sortilegi e credenze popolari, privandoli totalmente di ogni attributo magico e presentando le accuse prive di ogni riferimento reale, concreto o comunque credibile!
La sua arringa fu così elevata che il sovrano sentenziò la fine delle accuse di eresia e sortilegi in tutto il Regno delle Due Sicilie! Una sensazionale conquista, che pose fine alla persecuzione per stregoneria, spianando la strada verso una giustizia libera da credenze e superstizioni!
Anche se la condizione economica della Faragò non si risollevò e gli ultimi anni della sua vita trascorsero tra solitudine e stenti, questo processo rimarrà per sempre nella storia come esempio di trionfo della verità sulla mendacità e gli abusi e tutto ciò è stato reso possibile grazie a due calabresi: un’umile donna e un giovane avvocato.
Autore Daniela La Cava
Daniela La Cava, scrittrice, costumista, storica del Costume. Autrice di volumi sulla storia del costume dal titolo "Il viaggio della moda nel tempo". Collabora con terronitv raccontando storie e leggende della sua terra, che ha raccolto nel volume "Calabria: Echi e Storie di una Terra tra due Mari".