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Alla leggera

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Leggerezza


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Alla leggera mi imbastirò
tutto un dolore, una parodia
di mal di cuore e nevrastenia
Poi leggermente ti vengo in sogno
la vita è breve
il mio Amore, no.
Amedeo Minghi – Alla leggera

La vita ha un dono che, spesso, ci inquieta: sa essere impercettibile. Quel suo essere dominante, per forza del suo spessore sul piano umano e non solo, ha paradossalmente un lato di irrilevanza che si infila nella nostra anima e ci sbandiera delle verità assolute.

L’estate è la fotografia più reale di questo sentimento o stato che sia. È breve ma intensa, è fragile e quasi insulsa, perché troppe volte accostata a fenomeni di costume sormontati da una profonda banalità e da un senso di estetica approssimativa, che riaffiora sulle facce dell’approssimazione.

Questa visione sfuggente della vita, che si fa in parte sottile, entra in un deciso conflitto con la necessità umana di ricercarne un significato, andando ad originare una bizzarria insostenibile. Tante, troppe domande senza risposta restano lì, arrese, senza una via d’uscita, senza sapere per certezza se una soluzione esiste davvero. L’estate è il periodo del dubbio che sembra nascondersi ed attendere di ritrovare nuova linfa per l’inverno.

Sembra il momento della vita sospeso, quello del chissà e del dopo che viene sotto nuove vesti. Alla fine, resta un mondo che vorrebbe scommettere sul futuro ma non ha i dadi con cui tirare, quello che ci sfugge è complesso ma non scientifico, quello che ci dicono è sussurrato e urlato allo stesso tempo, ma non ci rimane nulla dentro da ricordare per un sempre che non arriva mai.

Da pochi giorni è tornata l’estate, quella che si aspettava per spezzare la paura pandemica, come se fosse un vaccino. Che cos’è che alla fine rimane? Qual è la risposta che l’uomo deve darsi vivendo in questo mondo?

Es muss sein, il “così deve essere” è l’unica cosa l’uomo si possa permettere di dire rispetto all’esistenza, considerando la necessità, Ananke, intesa nel senso stesso dell’esistere, per caricarla di un significato che non si può trovare.

E così si risuona il ritornello dell’Eterno ritorno dell’Uguale, in cui la necessità del divenire sopraggiunge e non lascia scampo nella fragilità della vita. Resta dunque questa leggerezza a poterci sollevare da terra, a rendere più sopportabile il peso della necessità di tutti quei perché: prenditi un attimo e ascolta il tuo respiro, così è la vita. A volte dona meraviglie, altre volte porta dolori, ma l’unico modo per viverla è una questione di spirito.

La gravità ci getta verso il basso, ma se guardiamo il cielo siamo già proiettati verso il sole. La leggerezza non è solo una misura, è uno stato d’animo, un atteggiamento che ci rende la sua proprietà, anche se non è facile da conquistare.

Quante volte avremmo voluto vivere alla leggera un momento della nostra esistenza? La Leggerezza ha una connotazione positiva, ci rende più liberi da qualcosa che ci opprime. Ed è come proprio librarsi, sollevarsi in aria. Leggerezza è comprensione delle realtà in una prospettiva diversa: ciò non toglie il non prendere seriamente questioni importanti, ma riguarda solo la propria capacità di affrontare gli avvenimenti dando loro però il giusto valore o, propriamente, peso.

Credo che sia un’abilità umana che si possa imparare. Operando con la propria volontà, rendendosi conto di quanto siamo ancorati, di quanto sia forte la pressione che ci opprime. La consapevolezza del nostro peso ci può anche rendere liberi da esso e darci la possibilità di superarlo.

Te ne accorgi quando scrivi: la materia del tuo contendere intellettuale non si anima dell’agilità rapida e tagliente di cui volevo fosse animata: c’è un divario che mi costa sempre più superare come uno sforzo aggiuntivo ed inaspettato. In questi attimi riesco a scoprire l’indigeribilità, l’inerzia, l’insulsaggine del mondo: qualità che s’incollano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle o di aggredirle con l’illusione di avere meno parole e azioni scontate da fare.

E così mi sembra che il mondo stia mutando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmia nessun aspetto della vita, anzi sfida il tempo e lo spazio. Sei in una stanza che è il mondo intero, su un foglio che nulla ti risparmia e ti sfida, sei un imbucato al funerale o alla festa della tua anima.

Amata leggerezza che fai temere il peggio che ci riserva il futuro, come un dolore che si distilla lento e che ti aggredisce comunque, anche se provi a scansarlo. Prima o poi questa immensa opacità la devi pagare, questo senti dentro ogni volta che provi una sensazione di oziosa libertà dal tuo essere e dalla tua professionale mansione umana che ti aspetta fuori. La dissolvenza della leggerezza è come il sogno dalla realtà del presente e del futuro.

Nulla è uno e tutto. È un universo infinto che ti apre ad altre vie da esplorare, che siano arcaiche o futuristiche, con stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo e della stessa vita che conduciamo. E scrivere non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, bisogna alimentare nuove speranze e visioni in cui sciogliersi.

Così chi scrive avverte la necessità di alleggerire il linguaggio su cui convogliano diversi significati e molteplici simboli su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza di chi si accinge a cadere nel vuoto. Viene così messo in risalto il contrasto tra la leggerezza del finito con l’infinito e la pesantezza del primo separato e completamente oppresso dall’infinito.

Ecco che, per evadere dalla gabbia metaforica che ciascuno di noi costruisce intorno a sé e che immobilizza a tal punto da impedire l’azione, ci si può affidare alla leggerezza. Distante dal significato di superficialità che oggi viene associato al termine, leggerezza per molti è slancio, è oblio, è il coraggio di attraversare tutte le notti del mondo.

Un volo per non sprofondare e sognare la libertà oltre ogni dittatura morale. Scontrandoci con l’eterno ritorno: il ripetersi del tempo, la scansione perpetua delle stesse vicende umane in eterno. Questo ritorno che può risultare un soffocante peso per l’uomo, immerso in una prospettiva temporale in cui ogni gesto, ogni azione, ogni pensiero riecheggia e si ripete in eterno.

Come un uomo nuovo, che si stacca da una prospettiva finalistica della vita e afferma il “qui e ora” come imperativo dell’essere, accettando totalmente l’esistenza con una carica gioiosa, entusiastica, “dionisiaca”. Staccando le ali dalla terra e lasciando una ombra sulla scia con la leggerezza dell’infinito.

Come un invito ad aderire alla realtà, a comprenderne l’essenza e la sua dimensione materiale. Non è altro che un “carpe diem” oraziano, un appassionato inno alla vita. Vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, per sempre.

Voi mi dite: “La vita è difficile da sopportare”. Ma a che scopo avreste allora al mattino il vostro orgoglio e alla sera la vostra rassegnazione? La vita è difficile da sopportare: ma per carità non fatemi tanto i delicati! In fondo siamo tutti nient’altro che somarelli e somarelle il cui destino è di essere caricati di un peso.

Che cosa abbiamo in comune con il bocciuolo di rosa che trema perché gli è caduta addosso una goccia di rugiada? È vero: amiamo la vita, non perché siamo abituati a vivere, ma perché siamo abituati ad amare. C’è sempre un grano di pazzia nell’amore. D’altra parte, c’è sempre anche un po’ di ragione nella follia.

E anch’io che voglio bene alla vita penso che le farfalle e le bolle di sapone, e tutto ciò che v’è fra gli uomini di simili ad esse, sappiano più degli altri ciò che sia la felicità. Veder svolazzare queste piccole anime così leggere, così graziose, agili, folli, ecco ciò che seduce Zarathustra fino a farlo versar lagrime e comporre canzoni.

Io potrei soltanto credere a un Dio che sapesse danzare. E quando vidi il mio diavolo, lo trovai serio, solido, profondo, grave: era lo spirito della pesantezza, tutte le cose cadono a causa di lui. Si uccide non in seguito all’ira, bensì attraverso il riso. Su uccidiamo lo spirito della pesantezza!

Ho imparato a camminare: da quel giorno mi piace correre. Ho imparato a volare: da allora non voglio più essere spinto per muovermi dal mio posto. Ora sono leggero, ora volo, ora vedo me stesso sotto di me, ora un dio danza attraverso di me.
Friedrich Nietzsche

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.