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L’arte del fallimento

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fallimento


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Hai mai provato? Hai mai fallito? Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
Samuel Beckett 


Il perfezionismo è quella tendenza a cercare di raggiungere, anche con esasperazione, sempre il massimo risultato dando la più estrema delle prestazioni.

A pensarci bene, è una caratteristica che coinvolge tanti aspetti dell’esperienza cognitiva, affettiva, relazionale e sociale dell’individuo.

Sì, certo, migliorarsi è stimolante, ma quando questo desiderio porta ad un’eccessiva severità nei confronti di se stessi, e quindi, a stati di malessere, il perfezionismo diventa patologia. Ergo, arriva l’inferno.

Per anni abbiamo subito il mito del successo, ci hanno educati al meglio, poi, una volta usciti dalla scuola e consegnati al mondo del lavoro, ci hanno detto che dovevamo essere performanti.

In azienda termini come “macchina da guerra”, “asfaltare”, “stress management” sono all’ordine del giorno.

La vita è un conflitto con il prossimo e amen se la domenica qualcuno crede ancora che le sue omelie abbiano effetto su di noi. Siamo dentro ad un sistema ed uscirne è quasi impossibile: chi resta indietro o salta un passaggio è un reietto, confinato all’emarginazione sociale. Diciamolo che dietro alla logica perversa del perfezionismo c’è una menzogna diabolica.

Qui, non si tratta di migliorare se stessi, fate attenzione. Si vuole un cambiamento radicale del proprio essere che deve trasformarsi in un robot competitivo. Sappiamo che “gli esami non finiscono mai”, eppure, stavolta, non sono le prove a far paura ma la pretesa, affermerei quasi la pretesa, che ognuna di esse venisse accompagnata dall’efficacia della lode. Essere bravi non basta più, dobbiamo essere i migliori.

Perché tutto questo?

Perché la società contemporanea ama il successo e non ammette disfunzioni. Il successo istituisce la persona, l’organizzazione, la cultura.

È un obiettivo chiaro per ogni iniziativa che suppone un risultato. È un indicatore con il quale determinare l’impatto, l’influenza e le conseguenze.

Il successo si manifesta tanto con il conseguimento tangibile di un obiettivo predefinito, quanto con il suo esatto opposto, il fallimento. L’opinione comune è che entrambi non possono coesistere. Eppure, ci sono storie che insegnano il contrario.

Esperimentare frustrazioni e fallimenti ci consente di definire uno stato di impiccio e di fare qualcosa per cambiarlo. La storia è ricca di esempi di grandi scienziati e personalità pubbliche che sono arrivate ad elaborare grandi scoperte o raggiungere traguardi importanti grazie a palesi fallimenti.

Da Einstein, il quale fu bocciato la prima volta che tentò l’esame di ammissione al Politecnico di Zurigo, a Walt Disney, che dovette chiudere per dissesto la sua prima società di produzione di cartoni animati, la ‘Laugh-O-Grams, Inc.’, fino a Stephen King, il quale dovette incassare trenta rifiuti per il suo primo libro, ‘Carrie’, prima di poter iniziare la sua carriera di scrittore.

Se queste personalità della storia avessero avuto un successo immediato probabilmente la loro vita e il mondo, per come lo conosciamo oggi, sarebbero stati differenti.

Sliding doors.

Per me il fallimento ha un ruolo almeno altrettanto importante nella nostra esperienza, nell’istruzione e nello sviluppo professionale del successo.
Se solo sapessimo trarre, da esso, degli insegnamenti coerenti con le nostre prime necessità!

In effetti, un aspetto altrettanto fondamentale per la formazione dell’identità individuale, a livello inter e intra psichico, e per quanto riguarda la capacità di regolare le emozioni, è proprio l’insuccesso.

Bistrattato, negato, evitato come fosse lo spettro dell’annullamento psichico, viene trattato alla stregua del concetto della morte. Nessuno vuole parlarne, al massimo ci si ammette di accennare al suo evitamento, ad ogni costo; si fanno gesti apotropaici e si nega la sua esistenza.

Eppure, non solo esiste, ma ci aiuta sopravvivere in un mondo articolato e contrario. Fin dalla primissima infanzia le esperienze negative ci permettono di regolare il nostro comportamento di fronte alle varie ostilità.

Se un bambino cade mentre tenta di muovere i primi passi sperimenterà dolore e senso di frustrazione e verrà mosso a ritentare finché non avrà successo.

Se un alunno si presenta impreparato ad un’interrogazione e ottiene un brutto voto potrà sentirsi motivato a studiare di più e cambiare il risultato che ha conseguito.

Se vengo allontanato dall’azienda per cui lavoro posso rendermi conto che non ero soddisfatto del mio impiego e ricercarne un altro più soddisfacente.

Sembrano banalità, ma non lo sono.

La capacità di sopportare e gestire la frustrazione è indice di salute mentale ed è una spinta indispensabile per poter raggiungere una successiva gratificazione.

Pensiamo alle varie discipline: nel mondo scientifico, ad esempio, tutti gli esperimenti ben concepiti sono collocati in termini di ipotesi fondate spesso sul nulla. Ispezionare le basi dei fenomeni biologici o delle malattie pretende lo stesso approccio e ha lo stesso basso rendimento dei risultati positivi.

Ogni esperimento fallito muta la prospettiva del ricercatore, lo incoraggia a rielaborare il disegno sperimentale e porta ad un avvicinamento sempre più depurato al problema, limitando progressivamente nel tempo le possibilità di uno studio fruttuoso.

Le discipline ingegneristiche hanno condotto questo processo all’estremo, avendo sviluppato il campo dell’analisi dei guasti utilizzando approcci di ingegneria forense. Ecco che il metodo scientifico è basato su processi che non possono non tenere conto degli errori. Essi sono, nel migliore dei casi, soggetti al gioco del caso.

Vista l’importanza del fallimento nella ricerca scientifica e nella risoluzione dei problemi, non dovrebbe stupire che l’attuale strategia educativa di conservazione della propria persona sia in contrasto con un’istruzione scientifica ottimale.

La ricerca e l’innovazione nella scienza richiedono un esito negativo, che deve essere insegnato, alimentato, compreso e integrato nel proprio paradigma.

Molteplici studi indicano nel fallimento la chiave del migliorarsi: ogni genitore dovrebbe educare i propri figli ad affrontare le avversità, ma non sempre questo accade.

Eppure, bisognerebbe allenare la propria resilienza. Essere resilienti significa essere flessibili e non rigidi. Significa perciò essere in grado di accogliere modi di vedere e agire differenti dai nostri. Vuol dire anche essere capaci di adattarsi a circostanze insolite e non programmate. Essere elastici senza andare in crisi.

Perché è solo la sconfitta che ci permette di conoscere la realtà e la nostra esistenza dandoci la possibilità di metterla in discussione, di osservarla da ogni angolazione e di trovare un punto da cui partire.

Da quando, durante la seconda metà del XX secolo, si è affermato il movimento della psicologia positiva, ci siamo ritrovati ad essere costantemente incoraggiati ad avere pensieri buoni e positivi senza indulgere nel negativo.

L’effetto domino della «positività», tuttavia, è stato quello di emarginare il fallimento e ora viviamo un’epoca in cui siamo talmente bombardati da storie di successo che corriamo il rischio di ritrovarci costantemente impegnati a raggiungere la perfezione, in cui i social media ci incoraggiano a credere.

E se approfondiamo, prima ancora di essere una questione individuale, esso, almeno in quei Paesi, che come il nostro, si trascinano nelle periferie della storia, assume i contorni funesti d’una piaga collettiva, d’un retaggio ereditario impresso nell’anima di tutto un popolo.

Non è il risveglio del fallimento che io vado a pretendere ma l’incoraggiamento insito nell’errore e nella ricerca ostinata e fiera di provarci ancora.

Esso diviene il tempo dell’erranza, della discontinuità, dell’incontro, della rottura della conformità ad uno scopo oggettivo e materiale.

C’è sempre nel corso di una vita una caduta, un incontro con la terra, un faccia a faccia con lo spigolo duro della realtà. Quello che ci consente di capire il dolore, ma soprattutto, ci permette di constatare che siamo vivi e sopravvissuti allo stesso tempo. E, sopravvivere, è pur sempre una rinascita. Oggi più di ieri è vitale capirlo.

La stagione del fallimento è il momento migliore per piantare i semi del successo.
Paramahansa Yogananda 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.