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La mia Tsantsa

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Tsantsa


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Aprile 2017
Ogni tanto guardo la testa in pelle di capra che, dall’alto in salone, osserva e guarda verso la porta di casa. La mia Tsantsa, la mia testa Shuar.

Ritrovo degli appunti scritti quasi dodici anni fa:

Ottobre 2005
Partiti e ritornati. Il cammino ha portato ognuno di noi in luoghi diversi del globo.
Sparsi su una mappa del mondo come biglie lasciate cadere nella sabbia. A me è toccata la Cambogia.
A Flaviana e a Ilaria l’Ecuador. Prima di salutarci avevo chiesto a Flaviana di portarmi una “tsantsa”. E così è stato. Una piccola testa in pelle di capra con fattezze umane.

Prima dei salesiani e prima che il governo ecuadoregno proibisse questa pratica, la tsantsa era la testa decollata di un nemico sconfitto in battaglia.

Occhi e labbra cucite. Orecchie non più in grado di udire.

La Tsantsa. Il talismano che gli Shuar, conosciuti per questo come i “tagliatori di teste”, portavano sempre con sé. Il rito, la pratica di tagliare e rimpicciolire le teste dei nemici aveva, oltre al carattere religioso, una connotazione talismanica.

Si rinchiudeva in questo modo lo spirito vendicativo dello sconfitto, il “muisak”, che, ora intrappolato in uno spazio così piccolo, non avrebbe potuto nuocere né alla comunità né tanto meno al guerriero vincitore, il quale avrebbe anche posseduto la forza dell’avversario.

In questo articolo di A. R. Williams su National Geographic del gennaio 2012
http://www.nationalgeographic.it/dal-giornale/2012/01/16/news/piccola_testa_grande_lavoro-780384/
è descritto sinteticamente il processo di rimpicciolimento di una testa umana.

Il processo era lungo e complesso e prevedeva un rituale in cui in un secondo momento era coinvolto l’intero villaggio. Nell”800, e fino ai primi anni del secolo scorso, il mercato del collezionismo alimentò il conseguenziale mercato nero delle Tsantsas.

Prima che gli occidentali iniziassero ad interessarsi a questi oggetti, era estremamente rara la pratica di realizzazione delle Tsantsas. L’alta richiesta fece aumentare il numero di omicidi. Le si scambiavano con armi che si tramutarono in denaro nei primi del Novecento.

Questo fece sì che altre popolazione estranee alla cultura Shuar iniziassero a realizzare Tsantsas, ovviamente false, da commercializzare con gli europei. Queste erano fatte essenzialmente con teste di scimmie o di bradipo, alcuni si spinsero addirittura al saccheggio degli obitori.

Curiosa la storia di Thor Heyerdahl raccontata nel suo “Kon-Tiki” del 1947, quando si trovava nella giungla in Ecuador e necessitava di legno di balsa per la costruzione dell’imbarcazione che l’avrebbe portato al di là del Pacifico, nelle isole polinesiane.

Le popolazioni locali non vollero guidarlo temendo che, una volta all’interno della fitta vegetazione, gli Shuar avrebbero tagliato loro le teste per poi rimpicciolirle.

Tornammo da quei viaggi.

La mia Tsantsa è lì, ancora lì con la propria storia prettamente commerciale e il ricordo di un’anima, quella da rinchiudere e portare con sé. Le teste rimpicciolite divennero le custodi delle anime. Piccoli vasi di Pandora in cui rinchiudere la parte oscura dell’uomo.
Un piccolo oggetto che conserva il senso religioso di un popolo, la storia segreta delle proprie tradizioni.

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!