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La liberazione

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Liberazione


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Tra il 27 e il 30 settembre del 1943 Napoli insorge contro le forze armate tedesche della Wehrmacht. Napoli è la prima, tra le grandi città europee, a destarsi contro l’occupazione nazista.

Un segno indelebile nel tempo della propria insofferenza verso il potere tirannico, una manifestazione di verace insurrezione che vomita rabbia e dolore contro il sopruso di un male assoluto, che prende il nome delle ‘Quattro Giornate di Napoli’. L’avvenimento vale alla città il conferimento della medaglia d’oro al valor militare.

Il popolo, sceso unito per le strade, è stremato dalla fame e da una guerra che ha portato solo lutti, privazioni e carestia. Tornando indietro di qualche giorno va ricordato che la tensione è già alta a poche ore dall’armistizio di Cassibile con il quale l’Italia si arrende agli Alleati.

Dopo l’8 settembre lo stadio Collana viene requisito dalla Wehrmacht e utilizzato dalle SS come campo di concentramento nel quale rinchiudere i napoletani da inviare in Germania.
Il comandante della guarnigione tedesca, il colonnello Walter Scholl, proclama il 12 settembre il coprifuoco e lo stato d’assedio attraverso un avviso che fa affiggere in tutta la città. L’ordine di Hitler è stato perentorio, la città deve essere ridotta “a fango e cenere”.
E i nazisti, obbedienti al loro Führer, subito cominciano a depredare e demolire: la furia teutonica, che si abbatte su pochi soldati sbandati e cittadini indifesi, raggiunge l’apice nell’incendio della Università.

Sempre lo stesso giorno, sulle scale della sede centrale dell’Ateneo, avvenne l’esecuzione di un marinaio ventiquattrenne, Andrea Mansi. Migliaia di cittadini sono obbligati dalle truppe tedesche ad assistere coercitivamente sul Rettifilo, la strada antistante il luogo della fucilazione. È un episodio che sconvolge gravemente l’anima napoletana, che ferita comunque non muore.

Il Lupo della Foresta Nera è stanco e ferito ma vuole ancora sangue, sputa odio e bile, ha gli occhi che sanno di inferno, le pulsazioni sono tamburi infiniti. Il Lupo, che si abbatte sulla città con gli ultimi spasimi dell’arcaica violenza, spinto da una irrefrenabile e secolare frustrazione, ha denti ancora aguzzi e spietati, seppur corrosi. L’odio è il varco al nuovo mondo, il ponte della gloria verso l’eternità di un potere occulto che, vorace, muove i suoi canini sulla pelle innocente.

Esplodono le vene, sono lava che incandescente brucia e ingoia il mondo tutto. Miti e fantasmi danzano intorno a quel falò, battono il petto e urlano vendetta e giustizia. Dio guarda da lontano quello spettacolo mostruoso, gira le spalle per dimenticare le sue colpe. Il Lupo alza gli occhi al cielo: il suo ultimo ululato è spaventoso, rauco, gonfio. Guarda negli occhi Dio e non li teme. Sa che tutto è perduto, per questo ha già vinto.

Gli edifici vengono dati alle fiamme, la popolazione rastrellata per le vie è costretta ad assistere in ginocchio all’esecuzione di un marinaio sulla soglia dell’Università.
Si delineano colonne di deportati: quattordici carabinieri, colpevoli solo d’aver resistito al palazzo delle Poste, vengono fucilati nel corso della tragica marcia verso Teverola.

Cominciare la devastazione metodica partendo dall’Università ha una valenza duplice: proprio dall’Ateneo partenopeo si sono elevate rabbiose ma decise parole di libertà, di volontà forte a rispondere duramente ad ogni rappresaglia, sostenute dal rettore magnifico Adolfo Omodeo che infiamma i cuori degli studenti rammentando loro che gli stessi professori erano della generazione del Carso e del Piave e “comprendevano il loro affanno”. Si colpisce l’entusiasmo dei giovani e le loro idee di emancipazione e di rivolta.

Gradualmente con sistematico disegno, sono distrutte le zone industriali, come lo stabilimento ILVA di Bagnoli; la città è svuotata, la sirena si accascia su se stessa, sospira guardando le nuvole e chiedendo ai suoi figli di reagire. Nel frattempo, in poche ore circa 240.000 cittadini vengono obbligati ad abbandonare le proprie case per consentire la creazione di una “zona militare di sicurezza” che sembrava anticipare la distruzione del porto.

Quasi simultaneamente, un manifesto del prefetto fascista impone la chiamata al servizio di lavoro obbligatorio per tutti i maschi di età compresa fra i diciotto e i trentatré anni; in pratica una deportazione forzata nei campi di lavoro in Germania. Nonostante la minaccia di essere passati per le armi per coloro che si sarebbero sottratti, sui circa 30.000 destinatari solo poco più di un centinaio di napoletani si presentano.

Tra i bombardamenti degli Alleati e i raid delle truppe tedesche, la città fragile, violentata e calpestata, si accende in una rivolta storica, figlia di quella più elitaria, se mi è concesso, che portò alla cacciata dei Borbone dal Regno delle Due Sicilie a favore dell’instaurazione del Regno d’Italia targato Savoia. La scintilla è causata da una retata tedesca durante la quale vengono fatti prigionieri migliaia di napoletani, secondo alcune fonti oltre 8000 persone: ecco che centinaia di uomini, si armano dando il via all’insurrezione.

Uno dei primi scontri tra i napoletani e i tedeschi avviene al Vomero, quartiere collinare della città, dove gli insorti arrestano una vettura nazista, uccidendo il maresciallo alla guida. Sempre al Vomero, i napoletani assaltano l’armeria di Castel Sant’Elmo e, al termine della prima giornata di scontri, anche gli arsenali delle caserme di via Foria e via Carbonara. Napoli si è desta. Con loro colpa, i tedeschi hanno lasciato in questi arsenali molto materiale bellico, convinti che nessuno lo avrebbe mai utilizzato per timore di nuove rappresaglie. Si sbagliano.

La notte tra il 27 e il 28 è stranamente dolce: nei cuori dei napoletani batte una agitazione che sa di rivincita. Vogliono riprendersi la vita e ripulire la loro città, rimettendo in piedi la loro sirena. Allora, smaniosamente ma con ingegno, ci si mette alla ricerca di tutto quello che può essere utile: indumenti e munizioni, sacchi di sabbia e mobilio da disporre per fantasiose trincee. Saccheggiano ovunque ma non è rubare.

La Rinascente, messa sottosopra dai tedeschi, è difesa da un gruppo di cittadini, il palazzo dei Telefoni in via Depretis, in buona parte bombardato in agosto, diviene un rifugio cavernoso, così come l’antico acquedotto di Augusto nel quartiere della Sanità. Qualcuno già vocifera di sbarchi degli Alleati a Pozzuoli ma non è vero. Napoli è sola contro il Lupo.

È l’alba del 28 settembre: con un effetto domino, scoppiano i primi moti di ribellione armata. Dal Vomero a piazza Dante, il popolo comincia ad insorgere. I tedeschi rispondono colpo su colpo, tra carri armati e cannone. Tra molti spiccano i contributi di Enzo Stimolo, tenente del Regio Esercito Italiano, considerato forse la vera e propria guida dell’insurrezione, e il dodicenne Gennaro Capuozzo che con coraggio intrepido fa da servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa. Muore colpito da una granata in petto. Non solo lui, ma tanti ragazzini, scugnizzi e non, scendono per le strade e si cimentano in una guerra che non è la loro. Sono esempi meravigliosi ma pur sempre sangue giovane che viene sciupato: nessuno o pochi ricordano ancora la loro eroicità. In quei giorni, gli scugnizzi si trasformarono in coraggiosi combattenti per ideali che si chiamavano Patria, Libertà e Fratellanza.

Napoli è un campo di battaglia cruento: le azioni dei gruppi di insurrezione sono decise ed epiche ma devono fare i conti con i limiti imposti da una mancata organizzazione centralizzata oltre che dalla scarsità di armi. Ciò nonostante la rivolta prosegue, con l’intenzione di impedire all’esercito tedesco di attraversare la città verso nord, conquistando il centro storico, facendoli ripiegare in poche zone così da tenerli in scacco non appena gli Alleati sarebbero giunti.

Il 29 settembre l’insurrezione napoletana raggiunge il suo apogeo. Da Capodimonte, dove viene messo in sicurezza l’unico serbatoio di acqua potabile, fino a Chiaia è un susseguirsi di scontri, ogni quartiere si riconosce in un capo-popolo, un Masaniello con la pistola.

I morti non si contano, alcune famiglie sono decimate, annullate e poi disperse nei corridoi polverosi della memoria storica.

Il Lupo corre, sbandando, verso la rovina. Nell’aria arpeggia una musica greve, odore di piombo nelle narici drogate, muschio e pietra tra le unghie addolorate. Il cielo è plumbeo, l’aria è rarefatta, si avverte un affanno che pugnala i muscoli. Vede lontano una nuova alcova, un buco che è il culo del diavolo dove finire il tempo e la storia. Sgretola le bandiere, spidocchia gli alberi dei pochi frutti rimasti, sbava e colora di nero le mura delle città con le gambe aperte.

Il Lupo non ha ombre, lincia il vento con la lingua molle che dondola fuori. Guardalo: non ha paura ma sa che tutto ora è abisso. Le vertigini appartengono ai clown, lui sa stare tra gli uomini veri senza tregua. Scende le scale, si infila nel buio spettrale ed insonne; ha una coda di serpente che striscia indolente. Fuori ora piove, avverte la fine e maledice il suo sangue.

I tedeschi hanno accusato il colpo definitivamente, con il comandante del presidio maggiore Sakau chiede la resa. Stimolo va a trattare con il Colonnello Scholl presso il suo quartier generale in corso Vittorio Emanuele. In cambio della liberazione dei 47 ostaggi detenuti nello Stadio Collana, concede alle truppe naziste di lasciare Napoli senza ritorsioni o rappresaglie. Questa immunità per i soldati della Wehrmacht è una grave umiliazione. I Lazzari, sporchi e poveri, hanno vinto sui figli di Odino.

Il 30 settembre l’esercito tedesco inizia a lasciare la città ma non si smentiscono: continuano i bombardamenti e le stragi. Non ultimo va ricordato l’immane danno prodotto nella distruzione a San Paolo Belsito, presso Nola, dell’Archivio Storico di Napoli, cioè la maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.

Il 1° ottobre la luce del sole di mezzogiorno irradia l’ingresso delle truppe anglo-americane ma Napoli si era già liberata. Da sola.

Il Lupo sente il rimbombo del mortaio. La porta si chiude da sola. Sa che la morte è la cura all’infedeltà degli Dei. Ha il muso tumefatto e gli occhi avidi di sonno. Trema ma non ha paura. Non vuole salvezza per se stesso né per i suoi figli. Non grida vendetta né pietà. Maledice il grembo materno e il silenzio che si capovolge.
Si abbandona a ciò che non è stato. Annusa la polvere da sparo.
Vede nello specchio un agnello e capisce che il crollo è vicino.
Pensa alla sua amata, finge collera e perdono, sniffa il veleno dell’addio. Buio. Fuoco. Caduta. Fine. Il lupo ora è agnello. L’altare è sangue che cola, ovunque.

Il 25 aprile 2020 sarà il 75° anniversario della Liberazione d’Italia. È una data simbolica che celebra l’affrancazione dall’occupazione nazifascista durante la seconda guerra mondiale. Non mi addentro in una disputa politica che non concilia nessuno e che, oggi, trovo fuori contesto.

Merita, però, un parallelismo la liberazione napoletana, poi italiana da quella che stiamo attendendo tutti dall’epidemia che ha soverchiato ogni regime di vita sociale ed economica nel mondo. Oltre che, ovviamente, portando lutto e dolore. Non abbiamo una data da festeggiare ma ogni giorno vissuto senza perdita è un giorno buono, da ricordare.

Qualcuno, con metro burocratico e amministrativo, sposta la fine del lockdown a maggio, poi a giugno e così via. Io so che la liberazione, questa che stiamo vaneggiando, avrà molti padri e molte madri. Di sicuro avrà la sofferenza dei medici, la stanchezza degli infermieri; la forza e l’ordine delle autorità chiamate a vigilare.

Sarà una liberazione mondiale da un nemico che non ha divisa né un accento preciso.
Non ha un culto né una fede. Non ha un esercito in carne e ossa ma avrà la stessa forza e violenza se non verrà arrestato prima. È un nemico invisibile, senza mostrine, senza un passato da difendere.

Molto dipende da noi, tutto dipende da chi ha la possibilità di decidere perché da noi eletto a rappresentarci. Ergo, tutto dipende da noi: dalle scelte fatte in passato, dalla volontà di comportarci correttamente oggi. La liberazione, questa luce che tarda a venire, non sarà annunciata per radio. Sarà raccontata giorno dopo giorno, mese in mese.

Dovremo aspettare un vaccino o un miracolo. Io preferisco il primo, mi pare più realistico. Dovremo essere rispettosi delle leggi che stabiliranno tutto, dai movimenti alle uscite, dal lavoro alla ripresa dei costumi e delle abitudini sociali. Io preferisco che ognuno di noi sappia che questa guerra non sarà facile da vincere, che durerà molto e che se la vogliamo vincere la dobbiamo affrontare con giudizio e coerenza.

Ci dobbiamo meritare questo nuovo 25 aprile e tutte le città e i suoi abitanti devono affrontare i prossimi giorni con lo spirito dei napoletani che hanno battuto con forza e determinazione il nemico dell’epoca in quel settembre del ’43. Poi potremo aspettare le truppe degli Alleati fare ingresso e convalidarci quell’urlo di libertà che oggi ci è strozzato ancora in gola.

Il pericolo è l’incapacità di tenere sotto controllo l’istinto, l’impulsività di tornare subito alla vita di sempre, scalzando le regole e corrompendo il sacrificio di questi lunghi mesi di isolamento. Bisognerà sapere aspettare il nostro 1° ottobre o il 25 aprile, fate voi.

In quei giorni così lontani, una bambina aveva poco più di otto anni. Era minuta ma forte, aveva gli occhi del mare e uno sguardo che era più tedesco dei tedeschi. Aveva perso la mamma pochi mesi dopo la sua nascita. Ultima di tanti fratelli e sorelle, viveva con il padre, bravo uomo e portiere tutto di un pezzo di antico palazzo, a Rua Catalana, tra il quartiere Porto e San Giuseppe di Napoli. Ribelle alle regole, sfrontata come una lazzara, bella come il bel giorno vuole. Aveva già conosciuto quello che poi a distanza di molti anni ancora sarebbe diventato l’uomo della sua vita.

Si accompagnava ad una banda di scugnizzi pronti a tutti: a saccheggiare per sopravvivere, ad aiutare chi aveva bisogno per farlo vivere. Giocava poco se non con lo “strummolo”, una specie di trottola, non erano tempi buoni quelli per giocare. Si doveva guadagnare la vita, minuto per minuto. Bisognava fare attenzione a tutto e, anche, a diffidare di tutti.

Una sera, “mentre fuori cadevano granate e cannonate”, sotto ad un ricovero si sentì abbracciata, protetta, da un uomo dagli occhi azzurri, biondo ed immenso. Il nome non lo capiva, ma lui, nella sua lingua così aspra, riusciva a farsi intendere: la tranquillizzava, le addolciva quelle tenebre. Lei lo chiamò per sempre “cippiripì”. Era un soldato tedesco.
La storia si ripeté ancora.

Di lui, dopo, non seppe più nulla. Ma ancora oggi che sono trascorsi tanti, troppi anni se lo ricorda, mentre gli occhi si fanno umidi.
Quella bimba, che oggi ha ottantacinque anni, era mia madre.
Le è rimasto lo stesso spirito indomito, lo stesso carattere ribelle, seppur segnato da dolori e dal lutto impenetrabile per la scomparsa del suo compagno di vita, avvenuto lo scorso anno.

Lei è qui, comunque, e sfida a testa alta questa nuova guerra mondiale. Senza paura ma con il giusto rispetto alla vita. Consapevole che “adda passà ‘a nuttata”. Aspettando una nuova Liberazione. Ricordando l’abbraccio paterno del suo “cippiripì”.
Ma questa è un’altra storia da raccontare.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.