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La collina degli alberi stricnina

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Tuol Sleng, la scuola degli orrori


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Phnom Penh
29 agosto 2005

Gli ultimi giorni in Cambogia. Prima di mettere i miei piedi in terra Khmer conoscevo solo letterariamente la storia di Pol Pot e del suo regime. Sapevo che lì, da qualche parte in questa città sul Mekong, si nascondeva la scuola degli orrori. La Tuol Sleng. Non volevo visitarla. Che senso aveva vedere il male fino a che punto possa arrivare?

Qualche giorno prima avevo letto “Danzando in Cambogia”, di Amitav Gosh.
Sentivo ancora quelle parole che percorrevano le strade di Phnom Penh, tra le stanze del palazzo reale, le sponde del Mekong e le vie che portano a Pol Pot.
Era il 1975 e i Khmer Rossi salirono al potere in quello che era il regno di Cambogia.
Un centinaio di scuole superiori furono subito convertite in prigioni e in campi di internamento. Tra queste c’era quella che divenne “la collina degli alberi di stricnina”, Tuol Sleng, la Prigione di Sicurezza S-21.

Quella mattina uscii dall’albergo con l’idea di passeggiare tra il museo di storia e la riva del fiume. Poi qualcosa mi prese. Forse quel continuo confondersi e alternarsi di storia e opere d’arte, di puzza di marcio e di enormi palazzi grigi e sfaldati. La puzza iniziava ad essere insopportabile. Mi resi conto presto della causa di quell’abbandono del senso olfattivo: un fiume di monnezze e marciume riempiva quegli isolati. La fogna a cielo aperto attraversata da ponticelli per collegare le due sponde. Ne oltrepassai uno di cemento e sudiciume.

Seguii per un po’ le strade tra i palazzi finché non mi ritrovai davanti ai cancelli dell’orrore. Non c’era nessuno. Tuol Sleng Genocide Museum. Nessuno. Il vuoto.
Il cielo era nuvolo e privo di colore. Forse rifletteva quell’edificio.

Mi prese un senso di abbandono, non del luogo, ma dell’uomo. Di quell’animale che ci ostiniamo a definire sapiens. Davvero non capivo e continuo a non capire il perché non ci fosse nessuno in quel “museo”. Inizia a camminare per i corridoi, le celle, le stanze, gli uffici in completo abbandono. Registri sparsi sui pavimenti sporchi. Cassettiere aperte con fogli strappati e foto ingiallite di uomini e donne torturate. Alcune stanze avevano invece le immagini dei prigionieri appese alle pareti. In altre, gli strumenti del male erano messi in posa, come se si volesse creare un soggetto pittorico la cui cornice era la soglia della porta.

I teschi. Non so quanti, ma abbastanza da riempire delle teche di legno e vetro. Abbastanza da creare una mappa della Cambogia. I teschi di chi era morto tra quelle stanze. Studenti, monaci, medici, ingegneri, politici, “portatori di occhiali”. Erano lì ammassati e sistemati. Una stupa d’oro era nel mezzo. Rendeva sacro quel sangue.
Il museo del genocidio.

La paura correva sempre più velocemente nelle menti dei Khmer Rossi al punto da uccidere i loro stessi ufficiali e ministri.

La storia degli occhiali mi ha sempre “turbato”. Me la raccontarono in molti. Era necessario indossare un semplice paio di occhiali per essere mandato al minimo nei campi di riso controllati dai Khmer. Erano un simbolo della cultura. Il saper leggere! Sapevano bene che la cultura avrebbe potuto destabilizzare il potere. Una mente autonoma era pericolosa. Andava rieducata.

I Khmer distrussero il loro stesso popolo. Trucidarono la propria cultura. Furono cancellati storia e storie, nomi e famiglie. Tutto doveva diventare uniforme.

Il ‘79 vide l’entrata in Cambogia dell’esercito vietnamita. Sconfissero i Khmer cattivi creandone degli altri sostitutivi. Ho Van Tay fu il fotografo soldato dell’esercito vietnamita che scoprì quell’anno Tuol Sleng. I suoi scatti mostrarono al mondo l’orrore del regime Khmer.

Furono i vietnamiti a spingere il nuovo governo cambogiano a trasformare nel 1980 l’S-21 in museo. Uno dei tanti dedicati al male. Uno dei tanti per ricordare all’uomo quanto male può generare, anche se, a quanto pare, solo la maggior parte dei turisti, dei visitatori, dei viaggiatori ha la mente per farne memoria critica.

I governi, le economie dei singoli, al contrario, continuano a creare male e sofferenze.
Non vogliono vedere la memoria. Molti furono gli stranieri a svanire a Tuol Sleng. Americani, britannici, francesi e altri, forse anche uno svizzero, ma i registri sono incompleti. Si trovarono per motivi anche casuali nel paese dei Khmer nel momento sbagliato, quello in cui divennero Rossi. Quando lessi di questi stranieri mi venne in mente Terzani e la fortuna che l’aiutò a non rimanere “avvelenato” nell’S-21.

Camminai per quelle stanze non so per quanto tempo, ma abbastanza per sentirmi svuotato. Fuori, in una parte del suolo, c’erano delle tombe di pietra allineate. Bianche. Non ritornai in albergo. Seguii piuttosto non so quale percorso.
Sicuramente mi persi o volli perdermi, non lo so.
Girai per le strade di Phnom Phen finché non mi ritrovai in un tempio buddhista.
Entrai e chiusi gli occhi.

Tuol Sleng, la scuola degli orrori

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!