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Italia, i primati negativi di un paese in declino

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Tra analfabetismo funzionale e fuga di cervelli, il desolante quadro di un paese in coma culturale

L’Italia delle eccellenze e dei primati di cui vantarsi sembra essere un pallido ricordo. Ormai il lacero orgoglio nazionale sembra essere alimentato solo da qualche vittoria sportiva.

Del resto, ci si ricorda di essere italiani solo quando gioca la nazionale, e anche in questo caso sempre di meno.

Altrimenti, la stampa nazionale ci cita piuttosto per una serie di record che non sono esattamente medaglie da appuntarsi fieri al petto.

Quarto posto per analfabetismo funzionale nei paesi OCSE, meglio solo di Indonesia, Turchia e Cile.

Secondo dati recenti il problema riguarda 2 italiani su 3.

In generale, il quadro delle competenze fa emergere dati drammatici.

Non siamo messi meglio come libertà di stampa, dove siamo al 41° posto, secondo il rapporto annuale di Reporter Senza Frontiere.

In Europa fa peggio solo la Grecia. Maggiore libertà per i colleghi giornalisti di Burkina Faso e Giamaica.

Come emerge da un comunicato di quest’anno della Corte dei conti:

In Italia, la quota dei giovani adulti con una laurea è aumentata costantemente durante l’ultimo decennio, ma resta comunque inferiore rispetto agli altri Paesi dell’OCSE. Tale fenomeno è riconducibile sia alle persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro sia al fatto che il possesso della laurea non offre, come invece avviene in area OCSE, possibilità d’impiego maggiori rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore. E le limitate prospettive occupazionali, con adeguata remunerazione, spingono sempre più laureati a lasciare il Paese (+41,8% rispetto al 2013).

Del resto, anche come dati di letalità per Covid l’Italia, secondo i dati OMS risulta essere messa malissimo, con una mortalità tra le peggiori al mondo, del 2,9%.

Insomma, ce la giochiamo con quei paesi dove si muore per raffreddore e se ci si ammala ci sono più probabilità di essere affidati ad uno sciamano che ad un medico.

Anche in precedenti articoli abbiamo segnalato come gli scienziati italiani che stanno gestendo, almeno mediaticamente, la pandemia, sono poco o niente considerati a livello internazionale.

E abbiamo fatto rilevare come ci siano stati più morti di mala gestione che di Covid.

Potremmo continuare ancora. Citando, magari, i dati di lettura, o sui consumi culturali di massa ma anche di nicchia.

Ma il quadro ci sembra già abbastanza chiaro.

Analfabetismo funzionale, scarsa libertà di stampa, pochi laureati, fuga di cervelli, sanità allo sbando.

Dalla pretesa di essere culla della cultura all’evidenza di esserne diventati la tomba.

Quali possono essere le cause di questa disastrosa tendenza?

Sicuramente grosse responsabilità ricadono sul sistema formativo, che sta gradualmente scadendo in termini di efficienza e di selettività.

Vero che i laureati sono in crescita, ma ormai è sempre più facile conseguire un titolo.

Così come non esiste nessuna scrematura nei segmenti precedenti del ciclo.

Questo accade indubbiamente un po’ in tutto il mondo.

Conseguenza anche del ’68, certo, che piuttosto che portare le masse al livello dell’istruzione superiore ha avuto la conseguenza di abbassare la stessa al livello delle masse.

La tendenza all’abbassamento del QI è una costante di tutto il mondo occidentale.

Ma i dati dicono che a casa nostra questo trend è molto più accentuato.

Innanzitutto, la selettività, come dicevamo.

Purtroppo, una costante tutta italiana è quella di partire da eccellenti affermazioni di principio per tradurle in applicazioni catastrofiche.

Durante la fine degli anni 90 e a tutt’oggi, nella scuola si diffonde una visione forte, se non estrema, del diritto allo studio, secondo la quale il sistema formativo non deve garantire il raggiungimento degli obiettivi minimi solamente ai discenti naturalmente portati allo studio, quelli volenterosi e magari seguiti dalla famiglia, ma anche a coloro che trovano delle difficoltà in questo senso.

Quindi è obbligo dell’istituzione predisporre una serie di percorsi di recupero per mettere tutti in condizioni di rispettare gli standard di apprendimento.

In parole povere è ribaltata la concezione tradizionale, la bocciatura non è dello studente, ma per la scuola che non è riuscita a metterlo in condizione di compensare il gap.

Bellissimo!

Ma nei fatti cosa è successo?

Che a prevalere è stata la squallida italiana ipocrisia.

Che di fronte alle bocciature sono cominciate a fioccare una serie di ricorsi, che puntualmente hanno visto i TAR e il Consiglio di Stato dare ragione ai ricorrenti, non escludendo il riconoscimento dei danni per chi si era costituito anche parte civile.

Una sentenza delle tante, abbastanza recente, è proprio del Consiglio di Stato, la n.638 del 20 gennaio 2021, che ha stabilito che la bocciatura di un ragazzino di seconda media era nulla, poiché l’istituto non aveva attivato i percorsi di recupero.

Appartengo ad una generazione, forse una delle ultime, per la quale la bocciatura era dell’allievo. Questo anche quando mi trovavo dall’altra parte della barricata, o della scrivania, se preferite.

Ai miei tempi essere bocciati o rimandati significava essersi rovinati l’estate, se andava bene.

E se si fosse ricevuto uno scappellotto, una bacchettata dalla maestra o dal prof. ci si sarebbe guardati bene dal raccontarlo a casa, perché senza nemmeno aspettare di conoscere il motivo le si buscava preventivamente. E se il motivo fosse stato grave si sarebbe beccato il resto a conguaglio.

Perché significava che avevamo fatto qualcosa di male.

E nessuno si sognava di chiamare il Telefono Azzurro o di denunciare il docente violento.

Sul web girano video di ragazzini che mancano pesantemente di rispetto ai docenti, che arrivano a mettere loro addirittura le mani addosso.

Se lo avessero fatto i miei coetanei sarebbero stati murati vivi dai genitori.

Oggi gli insegnanti sono alla mercé delle loro aule, non hanno nessun tipo di tutela.

Non possono bocciare, hanno paura di mettere un voto cattivo.

Se va bene rischiano un ricorso al Tribunale Amministrativo. Se va male trovano le ruote della macchina bucate, o sono aggrediti dai ragazzi o dai genitori.

Non sono certo convinto che ci sia il bisogno di tornale alla punizione corporale, certo. Ma si è ricaduti nell’eccesso opposto.

E nemmeno voglio difendere a tutti i costi la categoria.

Oggi i docenti sono sempre meno preparati, sempre più faziosi e meno in grado di insegnare, soprattutto a pensare.

Questo perché, come dicevamo, il degrado non risparmia le università. Anzi, forse parte proprio da queste.

Una ricerca del 2017 di Stefano Allesina e Jacopo Grilli, pubblicata sulla rivista Proceedings of the National academy of sciences ci assegna un altro triste primato, quello del nepotismo accademico.

Abbiamo confrontato il numero di ricercatori con lo stesso cognome, in ogni dipartimento e l’abbiamo confrontato con quello che che ci si aspetterebbe se le assunzioni fossero casuali secondo diversi ipotesi. L’abbondanza di ricercatori con lo stesso cognome nello stesso dipartimento potrebbe essere dovuta a effetti geografici o a una immigrazione in alcuni settori specifici. Se la ridondanza non si spiega così, allora potrebbe essere dovuta a professori che fanno assumere parenti stretti.

Ma di questo ci occuperemo in modo approfondito in un prossimo articolo.

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Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.