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Hubert nello Sputnik

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Sauper


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Quello che mi piace moltissimo del modo di raccontare di Hubert Sauper è la sua osservazione partecipante. Non è mai fisso in un posto, il suo racconto è sempre in soggettiva, ma non come una puntata di “Medici in prima linea”.

Quello che mi piace di Hubert Sauper è la capacità di mantenere la propria umanità senza essere pietoso o patetico, senza indulgere in quelle inquadrature tanto care a coloro che sperano con il taglio ad effetto di ottenere il meritato premio. Ma la sua spesso sbilenca modalità di racconto ti fa sentire lì. Certo a volte un po’ più nascosto di altri. Quello che gli invidio è la capacità di costruirsi da solo un piccolo aereo, chiamarlo Sputnik, e con quello arrivare senza paura a raccontare e riprendere quello che succede, per esempio, in Sudan.

SauperApprocciarsi al mondo ben sapendo che dal momento in cui atterra non dovrà scapicollarsi a guadagnare fiducia e sfiancare la gente con inseguimenti di giorni per capire dove e con chi è. Perché una volta che sei atterrato in un villaggio inaccessibile per le vie tradizionali, ovvero per strade che nemmeno ci sono, saranno gli abitanti a venirti incontro per capire chi cacchio sei e, soprattutto, perché sei lì. Chi sei in Sudan, e Sauper ce lo spiega benissimo, lo hanno imparato a proprie spese. Perché, vedete, il colonialismo non è finito mai, cambia solo le sue maschere, cambia il modo di approcciare il mondo che vuole per sé.

Sauper racconta di questi nuovi colonialisti a “Il fatto quotidiano” in occasione del Milano Film Festival del 2014:

Uominid’affari alla ricerca di profitti facili, missionari cristiani, trafficantid’armi, i leader delle grandi nazioni del mondo che cercano di fare dell’Africa la loro area di influenza e, appunto, registi con in testa l’idea di un film. Questo slancio alla conquista è uno dei grandi miti e motivi della cultura occidentale; quando abbiamo esaurito la conquista del mondo, siamo partiti alla conquista dello spazio.

Ma per continuare in maniera a dir poco ossessiva con quello che mi piace di Sauper, aggiungo che mi piace proprio il suo modo di fare politica e di dichiararlo.
Sì, perché oggi sembra un delitto. Pare che occuparsi di politica da liberi cittadini sia “cacca”, disdicevole, non si fa. Quasi come quando ti danno dell’intellettuale e secondo qualcuno dovresti offenderti. Offendermi? Ma io sono onorata dalla parola. Magari lo fossi! Magari ci fossero i Pasolini che si occupavano (eccome!) di politica a testa alta, anzi inserendola nella poètica.

Magari ci fossero cento Sauper candidati all’Oscar per i loro film. Perché fare un bel film non significa solamente muovere gli attori in scena. Perché fare un buon film significa dire delle cose a proposito delle emozioni, della realtà, del mondo e farlo con immagini e suoni che arrivino a chi guarda. Chi se ne importa delle categorie. Ci sono film che sembrano documentari fatti sui loro protagonisti, che parlano per ore di come si muovono e come camminano gli attori all’interno di un’inquadratura, per carità… se emoziona, se piace, non mi permetto di dire che sembrano documentari su attori agée.

SauperInsomma “We Come As”, ovvero vengo in amicizia, mette già dal titolo in evidenza come esista una forte discrepanza tra quelle che sono le rappresentazioni (da Occidentali) dell’Africa e quella che è la verità. In maniera dura, cruda, poetica, intelligente, colta.
Le riprese sono effettuate durante il referendum del 2011 che chiedeva la separazione del Sud Sudan (a maggioranza cristiana) dal Sudan musulmano.

Ci sono i cristiani evangelici americani arrivati in Sud Sudan per spiegare il Vangelo, che frustano i bambini che non si coprono ma che poi non riescono a spiegargli il senso del passo della Genesi in cui Adamo ed Eva sono “nudi ma senza vergogna”. Ci sono i dipendenti cinesi di una compagnia petrolifera – la Repubblica popolare è uno degli attori più attivi nello sfruttamento delle risorse in Africa, con il governo di Pechino che ha sostenuto con energia il presidente sudanese accusato di genocidio al-Bashir -; lavoratori che vivono barricati dentro il loro compound e che spiegano che “la protezione dell’ambiente non è un problema nostro”. E ci sono soprattutto le grandi società occidentali in lotta per lo sfruttamento delle enormi risorse petrolifere e naturali del Sud Sudan, che si incontrano alle Conferenze per gli Investitori spiegando che “il Sud Sudan va aiutato” (con sullo sfondo una televisione che rimanda un’intervista all’ex- segretario di stato Usa Hillary Clinton, secondo cui “gli africani godranno enormi benefici” dagli investimenti stranieri); intanto però Sauper ci mostra comunità senza più acqua potabile, infiltrata nelle operazioni di estrazione del petrolio, e vecchi capi di comunità locali che concedono alle società occidentali lo sfruttamento di 600 mila ettari di terra per 25 mila dollari.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/08/milano-film-festival-we-come-as-friends-viaggio-nello-sfruttamento-del-sudan/1113877/

Ci siamo già occupati, sebbene tangenzialmente, di Sauper in questo spazio. A proposito del suo film “L’incubo di Darwin” del 2004, altro fortissimo resoconto della situazione del Lago Vittoria in Tanzania. Ma in realtà questi film non parlano solo di Africa, anzi, parlano di Russia, America, Italia, perché la “parte” del mondo, e chi vuol capire capisca, non esiste più….

SauperChi scrive è sempre più convinta dell’importanza del racconto visivo come veicolo di senso, e quindi di quanto sia fondamentale che arrivi anche a quel pubblico che tradizionalmente non l’avrebbe guardato ma che se lo avesse trovato, perché un’intelligente programmazione lo ha inserito in una rassegna di premi internazionale e famosa, avrebbe benedetto coloro che gli fornivano questa opportunità.
Quel pubblico che è grato al racconto degli sbarchi a Lampedusa perché “Fuocammare” non li propone solo come l’elenco di morti affogati. Quel pubblico che ha così pure la possibilità di andare oltre la visione del mondo offerta da una finestra aperta solo dal lato “occidentale”, intenso come direzione dello sguardo.

Potrei semplificare, ma non voglio. Perché “Il niminchialista” rivendica proprio il diritto a non essere semplici. Il diritto a non semplificare a tutti i costi.

Sono persuasa che sia necessario un racconto visivo che renda l’idea di realtà più di quanto non la mistifichi un certo cinema, che traghetti la verità del mondo da un film documentario, da un servizio giornalistico, da una rubrica del mezzogiorno. Senza voler a tutti costi entrare nel complesso mondo di quello che può definirsi artistico e cosa no. D’altra parte oggi il focus della mancanza di artisticità è sul documentario mentre prima era sulla televisione… In “Zora la vampira”, dei fantastici Manetti Bros, il protagonista Dracula lamenta la propria delusione per la realtà.
Ed anche lui ce l’ha con la televisione:

Io in televisione avevo visto strade luminose, gente felice, gioventù, freschezza e invece ho trovato solo squallore, falsità, maleducazione, spazzatura.

Da quando esistono le immagini “riprese” esiste il problema della realtà, della verità. Fotografia e cinema alla nascita avevano da una parte il compito di documentare la realtà, e dall’altra produrre a loro volta quella quota di “arte” che sottraevano alla bravura dei pennelli di pittori. Ebbene nella televisione questa quota artistica non viene mai cercata. Eppure credetemi c’è. Io per esempio penso che Ilaria Alpi avesse veramente un modo artistico, oltre che profondo e vero, di raccontare quello che attraversava la sua strada.

Mi chiedo cosa ne penserebbe Sorrentino dell’affermazione di Huber Sauper:

Il senso dell’arte e del cinema come lo intendo: smascherare le certezze, cercare di pensare ai grandi problemi mondiali sotto un’altra prospettiva.

A me piace.

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Autore Barbara Napolitano

Barbara Napolitano, nata a Napoli nel dicembre del 1971, si avvicina fin da ragazza allo studio dell’antropologia per districare il suo complicato albero genealogico, che vede protagonisti, tra l’altro, un nonno filippino ed una bisnonna sudamericana. Completati gli studi universitari si occupa di Antropologia Visuale, pubblicando articoli e saggi nel merito, e lavorando sempre più spesso nell’ambito del filmato documentaristico. Come regista il suo lavoro più conosciuto è legato alle dirette televisive dedicate a opere teatrali e liriche. Come regista teatrale e autrice mette in scena ‘Le metamorfosi di Nanni’, con protagonisti Lello Arena e Giovanni Block. Per la narrativa pubblica ‘Zaro. Avventure di un visionauta’ (2003), ‘Il mercante di favole su misura’ (2007), ‘Allora sono cretina’ (2013), ‘Pazienti inGattiviti’ (2016) ‘Le metamorfosi di Nanni’ (2019). Il libro ‘Produzione televisiva’ (2014), invece, è dedicato al mondo della TV. Ha tenuto i blog ‘iltempoelafotografia’ ed ‘il niminchialista cinematografico’ dedicati alla multimedialità.