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Voce ‘e notte

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Autore: Edoardo Nicolardi – E. De Curtis
Titolo: Voce ‘e notte
Anno di pubblicazione: 1905

Il testo della Canzone Voce ‘e notte, a mio parere, è senza dubbio una delle più belle poesie scritte in lingua osca, dalla Fabulae Atellanae ad oggi, ed è ancora attuale.

Non ho usato l’espressione “dialetto napoletano” perché in Campania si parla una lingua neolatina che riprende la matrice dell’idioma degli osci, del tipo celto – italico, anche nel periodo del dominio di Roma come latinus cotidianus, cioè parlato dal popolo.

Ad esempio, sui muri di Pompei, in una scritta per la campagna elettorale del ’78 d.C., leggiamo nelle epigrafi “iamus” anziché “eamus” per dire “andiamo, votate”.

La lingua osca è quella oggi conosciuta come “dialetto napoletano”, espressione coniata da chi ha scritto la storia ufficiale del Risorgimento, ritenendolo solo una miscellanea da contaminazioni linguistiche dei vari “stranieri” che avevano dominato il Regno di Napoli. Nulla di più falso!

La lingua osca è del ceppo che comprende portoghese, celtibero, ovvero, spagnolo antico, catalano, provenzale-occitano, ligure sardo, in parte, ed altre minori, avendo in comune la sintassi, i termini base, le declinazioni dei verbi, differendo solo nella fonetica ed in piccoli particolari dovuti a differenze storiche ed ambientali di questi popoli, peraltro inevitabili.

Alla lingua osca manca una scrittura codificata, la cui chiave di lettura permetterebbe agli “altri” di parlarla con la pronuncia corretta. Basti pensare ai grandi tenori, che sublimano la canzone napoletana, ma limitano la riuscita dell’esibizione per la pronuncia scorretta, anche se è stata loro insegnata bene, come mi è successo nel 1956 ascoltando un coro olandese.

Spesso si vede anche una differenza grafica fra i diversi autori o studiosi che riportano i testi di scritti napoletani, non solo canzoni.

Sarebbe forse utile adottare la grafia ligure o francese, che, meglio di altre, permettono di pronunciare bene le espressioni vocali particolari, soprattutto per la finale muta (e).

Non è una lingua morta, bensì viva ed attuale, parlata nell’ovest della regione, con piccole differenze locali, salvo alcune enclave, ove la pronuncia delle parole ha un tono ed un accento particolare.

Si evolve col passare del tempo, basti confrontare le canzoni ‘Te voglio bene assaje’ del 1835 e ‘Voce ‘e notte’ del 1905. Si notano delle rilevanti differenza tra loro, anche nella grafia, e l’intervallo temporale è di soli 80 anni.

Analoghe differenze si notano tra ‘Fenesta vascia’, del 1500, e ‘Lo Guarracino’ del 1700, in un arco temporale più lungo.

Per questa tesi mi riferisco alle canzoni sia perché sono conosciute da tutti, sia perché il testo della canzone napoletana fino al 1960, per l’80% è una vera poesia, di cui almeno il 50% è di alto livello.

Spesso la musica rinforza la poesia, come in Voce ‘e notte, Fenesta vascia, ‘a testa aruta, ‘ariulà, Marechiaro, ecc., in altre, come ‘O sole mio, nobilita un testo nato per una canzone, solo in pochissime si dimostra inadeguata.

La simbiosi di poesia e musica con il tempo può deteriorarsi, perché la prima resta sempre la stessa, inalterata nel tempo, mentre la seconda, relativamente alla parte musicale, è oggetto di interpretazione, non sempre ‘ortodossa’, anzi, annulla l’essenza e deturpa la bellezza del brano.

È quello che avviene nelle altre discipline artistiche. Nella pittura e scultura l’opera d’arte resta per sempre inalterata, salvo atti vandalici.

In architettura, invece, l’opera d’arte può essere manomessa da chi la usa o da chi non la capisce, per cui non sempre quello vediamo è l’originale e le modifiche sono sempre a svantaggio della costruzione e della fama dell’Autore.

Per questo nella Canzone (con la C maiuscola) e la Musica Cantata, preferisco la poesia, nessun “modernizzatore” la può “inguaiare”.

Il testo

Il testo di Voce ‘e notte, divenuta canzone, è stata scritta dal giovane poeta Eduardo Nicolardi, che aveva perso l’amata, andata in sposa, per volere dei genitori di lei, per motivi di posizione economica ad un ricco settantacinquenne.

In letteratura l’amore realizzato, crea i grandi prosatori, perché il sogno d’amore si logora nella vita quotidiana, mentre quello perduto o impossibile crea i grandi poeti, perché resta un sogno, inattaccabile, anzi, si sublima con il passare degli anni.

Anche se Nicolardi per la morte del rivale, sposò la sua amata, realizzando il loro sogno idillio a noi è restata una delle più belle poesie e canzoni di tutti i tempi.

Il commento che segue riguarderà solo la storia umana, dimenticando l’autore.

Essa nasce da un episodio che si ripete sempre nel tessuto umano della città di Napoli e, talora, è ancora un “uso” della borghesia mercantile, in maggior parte composta da persone non “indigene napoletane” ma da “immigrati, anche interni, del Regno delle due Sicilie”.

Queste famiglie ricorrono al “sensale” per trovare alle loro figlie nubili, per marito, una persona a reddito fisso, anche basso, quale impiegato statale o simili, meglio se nella Guardia di Finanza “forestiera”, o impiegato del Comune o Aziende Comunali, gente notoriamente scelta non sempre per merito personale, ma in base alle appartenenze o raccomandazioni.

Se la ragazza è innamorata, poco importa, si manda via il pretendente.
Gli esclusi, i miserabili di turno, quasi sempre si realizzano nella vita con le proprie forze, se lontani da Napoli, superando, in “posizione sociale”, chi li ha rifiutati, poiché il Destino, Signore del Mondo, non lo fa i “sensali”, né i ricchi parvenu, più noti come pezzenti sagliuti.

Illustrato il contesto in cui nasce la poesia, la analizziamo per godercela come merita.

La sua struttura è in tre strofe di otto endecasillabi, con rima alternata nella prima metà e baciata nella seconda. La riporto intera con la traduzione all’impronta per farla capire meglio, quella letteraria le fa perdere la forza.

Voce ‘e notte Voce di notte
Si ‘sta voce te scéta ‘int’ ‘a nuttata
Mentre t’astrigne ‘o sposo tujo vicino
Statte scetata, si vuó’ stá scetata
Ma fa’ vedé ca duorme a suonno chino
Nun ghí vicino ê llastre pe’ fá ‘a spia
Pecché nun puó’ sbagliá ‘sta voce è ‘a mia
E’ ‘a stessa voce ‘e quanno tutt’e duje
Scurnuse, nce parlávamo cu ‘o “vvuje”
Se questa voce ti sveglia nella notte,
mentre ti stringi al tuo sposo, vicino.
Resta sveglia, se davvero lo preferisci,
ma fingi di dormir profondamente.
Non andare alla finestra, per vedere.
perché non puoi confonderti, la voce è
la mia, è quella stessa che, timidamente,
parlava d’amore e noi ci davamo del voi.
Si ‘sta voce te canta dint”o core
chello ca nun te cerco e nun te dico;
tutt”o turmiento ‘e nu luntano ammore,
tutto ll’ammore ‘e nu turmiento antico…

Si te vène na smania ‘e vulé bene,
na smania ‘e vase córrere p”e vvéne,
nu fuoco che t’abbrucia comm’a che,
vásate a chillo… che te ‘mporta ‘e me?

Se questa voce canta nel tuo cuore ciò
che non riesco, né tento di dirti:
tutto il tormento per un perduto amore,
tutto l’amore per un tormento lontano.

Se senti un gran desiderio di amare,
una voglia di baci scorrere nelle vene,
un fuoco che brucia l’anima ed il cuore,
baciati quel tizio, che t’importa di me!

 

Si ‘sta voce, che chiagne ‘int”a nuttata,
te sceta ‘o sposo, nun avé paura…
Vide ch’è senza nomme ‘a serenata,
dille ca dorme e che se rassicura…
Dille accussí: “Chi canta ‘int’a ‘sta via
o sarrá pazzo o more ‘e gelusia!
Starrá chiagnenno quacche ‘nfamitá…
Canta isso sulo… Ma che canta a fá?!”
Se questa voce, piangente nella notte,
ti sveglia lo sposo, non aver timore,
vedi che la serenata è senza dedica,
digli di dormire, sicuro che non è per te.
Digli così: “Chi canta in questo vicolo
o sarà forse pazzo o lo strugge la gelosia!
Forse piange qualche grave malefatta,
nessuno lo ascolta … chi glielo fa fare?!”

I primi in due versi ci presentano lo scenario ed i protagonisti, la Voce e la Sposa.

La Voce resterà sempre e solo una “voce”, non si saprà mai cosa canta o dice o impreca, né chi ne svolge il ruolo, è solo una Voce nella notte in un vicolo semibuio.

La Sposa è bene individuata ed è la vera protagonista.

Gli altri versi della prima strofa statte scetata… scurnuse, nce parlavamo cu’o vvuje consigliano alla sposa cosa fare, perché la Voce è sicuro che la Sposa non può averlo dimenticato, perché essa è sempre e solo la voce dal tono timido che le diceva parole d’amore, parlandole con il voi e non avrà mai il minimo dubbio che il suo amore lo abbia dimenticato.

La seconda strofa è il vero centro della storia. La sua recitazione deve rendere bene i sentimenti che esprime, sottotono per i primi due versi, in crescendo per i rimanenti fino a cumm’a chè, quindi una pausa poi sottovoce l’ultimo verso, che indicare rassegnazione.

Si stà voce ti parla int”o core, chelle ca nun te cerco e nun te rico: tutt’o turmiento ‘e nu luntano amore, tutto l’ammore ‘e nu turmiento antico

è il messaggio della “voce”, che non tenta nemmeno di dire, perché parla al cuore, il suo tormento per l’amore svanito, l’amore che conserva per questo tormento, antico cioè radicato nella sua anima, tutto per non un motivo non preciso.

Forse la Voce era lontano “Fore”, o militare o forse navigava, forse perché povero e la madre benestante di lei ha combinato un matrimonio di casta a cui la ragazza non ha saputo o voluto sottrarsi. Avrà forse preferito l’agiatezza all’amore?

La voce ricorda i sentimenti che le procurava

si siente n’core na smania ‘e vulè bene, na smania ‘e vase scorrere p’e vene, nu fuoco che t’abbrucia comm’a cchè!

A questo punto la Voce capisce che è tutto inutile, pensa che la Sposa abbia ricordato e rivissuto un sentimento tanto forte e tanto impossibile, per cui è meglio per tutti che quella “smania” sia rivolta a chi le dovrà restare vicino per tutta la vita, e, rassegnato dice

vásate a chillo… che te ‘mporta ‘e me?

È qui la grandezza dell’autore, capisce che il Destino vince tutto e che potrebbe far del male alla persona amata, che il vero amore è non far soffrire la persona amata, e pensa “chè sia felice, anche senza di me!”

La terza strofa sviluppa questo concetto. La voce, resasi conto del possibile male che può arrecare all’unico suo impossibile amore, consiglia la Sposa su come fare.

Questa strofa merita di essere recitata in tono pacato spegnendosi nell’ultimo verso.

Si sta voce che canta int’a nuttata,
te scete ‘o sposo… nun avè appaura, vire ca senza nomme è ‘a serenata, rille cà rorme… cà s’arrassicura.

Poi suggerisce le parole che definiscono la Voce:

chi canta int’a sta via, o sarrà pazzo o more ‘e gelusia…
starà chiagnenno quacche ‘nfamità,
Cant’isso sulo… ma che canta ‘affà.

La Voce, il vinto dalla vita, svanisce nella notte nella nebbiolina dell’alone sula luce dei fanali del vicolo, che torna nel silenzio interrotto da na voce ‘e notte senza poter sapere cosa abbia cantato o gridato o imprecato o pianto.

Questa poesia mi è tanto cara, ed anche la canzone. Mi viene in mente nei momenti particolari della vita ed allora vedo lo scenario che vado a descrivervi.

Inverno 1964, vico Pace ai Tribunali, inizio lato piazzetta delle Erbe del Pendino. È sera, i lampioni illuminano in un alone di foschia fino al secondo piano, è accesa una luce al 4° piano, filtra la luce da alcuni bassi vicini alla bottega di Cesare, l’ugliararo, una persona veramente buona, chiusa a quell’ora. Il lastricato è umido e riflette la luce dei lampioni.

Le luci delle case si spengono, un gatto esce dalle rovine, lato vico Scassacocchi; è innamorato ed inizia una serenata alla sua bella che non c’è, forse lo ha lasciato per un amore del Vomero o di via Orazio. Una voce seccata grida “passa ‘a llà!”, vai via!

È il vecchio dei cartoni, non certo in vena di romanticismo, dopo una giornata a tirare il carrettino per i vicoli ed i carruggi del Mercato e del Pendino.

Il gatto si allontana, con dignitoso disappunto, ed io, bighellonando, vado verso l’Ospedale della Pace e mi inoltro nel cuore chiuso del quartiere San Lorenzo.

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Autore Salvatore Bafurno

Salvatore Bafurno, napoletano ma vive a Piacenza, ex dirigente delle ferrovie italiane, ama la lettura e la scrittura.