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… e un Don Giovanni napoletano finì relegato

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Stemma dei Filomarino
Stemma dei Filomarino


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Grosso scandalo nel Regno delle Due Sicilie

Nella metà del Settecento un grosso scandalo dal sapore boccaccesco scoppiò nella capitale del regno delle Due Sicilie, Napoli, coinvolgendo personaggi di spicco dell’alta nobiltà e lambendo la stessa corte del re, l’illuminato Carlo III di Borbone, futuro re di Spagna.

Il protagonista, che diede innesco a quello scandalo, appartenente alla potente e influente Casa dei principi Filomarino, venne poi relegato nell’isola di Pantelleria.

Di notizie sul “fattaccio” se ne trovano ben poco nelle carte del tempo, in quanto la cosa riguardava personaggi di primo piano del regno e lo stesso re Carlo ordinò di mettere il “silenziatore” a tutta la faccenda. Ma andiamo con ordine.

Siamo a Napoli nell’ultimo decennio del regno di Carlo III di Borbone, che nel 1759 verrà poi nominato re di Spagna, e la corte reale è un continuo susseguirsi di splendide feste in cui furoreggiano avvenenti fanciulle della più alta nobiltà siculo – napoletana.

Tra quest’ultime una delle più desiderate e bramate dagli occhi concupiscenti dei giovani nobili del tempo è la bella e civettuola moglie di un marchese – purtroppo le cronache tacciono accuratamente sul nome di questo magnifique cocu -, che ha “entrature” ai massimi livelli nella corte reale e presso il re.

Un bel giorno – o brutto, a seconda dei punti di vista – gli occhi della fatale marchesa s’incrociano con quelli maliziosi e “spogliatori” di un giovane rampollo di una delle casate più prestigiose e ricche della nobiltà napoletana.

Si tratta del principe don Antonio Filomarino, discendente di una delle famiglie più antiche della città di Napoli, le cui origini si fanno risalire all’epoca del Ducato ovvero agli inizi dell’anno Mille.

Si racconta che il principe fosse di bell’aspetto, aitante e gentile nei modi, proprio all’opposto della figura del marchese. Abbiamo dato un’occhiata alle statue dei Filomarino di quell’epoca ed effettivamente il volto scolpito di quelle statue è gradevole, pur tenendo conto degli inevitabili abbellimenti dello scultore.

Per la curiosità del lettore alleghiamo al presente scritto la foto del busto del principe don Tommaso Filomarino, consanguineo di don Antonio e vivente in quegli stessi anni.

Principe don Tommaso Filomarino

Ma torniamo allo sguardo “galeotto”. Quello sguardo scatena nei due giovani una travolgente passione che subito avvampa e che deve essere consumata ad ogni costo. Ma al marchese  non sono sfuggiti gli sguardi languidi e invitanti della giovane moglie e prende immediatamente i dovuti accorgimenti.

Non può certo proibire al potente Filomarino di frequentare la corte, né tantomeno può esternare al re quelli che sono al momento dei semplici sospetti, quindi obbliga la moglie a ritirarsi, per un lungo periodo di preghiere, nel vicino monastero di Sant’Antoniello appena fuori la porta cittadina di San Gennaro. Detto convento appartiene a delle monache di clausura della più rigida osservanza.

A quel punto il marchese si ritiene al sicuro da eventuali “corna”. Ma non ha fatto i conti con il cuore, e soprattutto con i sensi, dei due giovani. Antonio Filomarino, quindi, non si dà pace, smania, si arrovella e, alla fine, una notte riesce a violare le mura del convento e ad involarsi con la bella e procace marchesa. Certo, la fuga non sarebbe stata possibile senza la complicità di qualcuna all’interno del convento.

Si parla sottovoce della stessa badessa o di altra suora di alto lignaggio nobiliare, ma non si perviene ad individuare alcun complice, forse anche perché la Chiesa non vuole assolutamente che si aggiunga scandalo a scandalo.

Comunque, la fuga dei due colombi di così alto lignaggio nobile è uno scandalo senza precedenti per l’intera corte napoletana. Lo stesso sovrano è indignato fuori misura, anche perché il papa in persona è stato informato dell’accadimento.

La cosa più grave di tutta la faccenda è la violazione di un convento di clausura, per cui le leggi del tempo prevedono la pena di morte forsanche si trattasse di un principe di sangue reale, che peraltro non era il caso del Filomarino.

Don Antonio e la sua bella raggiungono prima Ginevra e poi Venezia, dove danno finalmente libero sfogo alla loro travolgente passione. Una vera e propria luna di miele. Si racconta che i due passassero più tempo a letto che in altre faccende, quali mangiare e passeggiare.

Poi i due raggiungono Roma e qui l’occhiuta gendarmeria papalina, a seguito della solita soffiata, li arresta e li traduce, sotto scorta, a Napoli.

È l’agosto dell’anno 1750 e la Gran Corte della Vicaria comunica di aver ricevuto un decreto del re che le notifica

che, quantunque il pr. D. Antonio Fillomarini avesse meritata la pena di morte tanto per aver violata la clausura del monastero, quanto per altri suoi cattivi portamenti, S. M. compiacevasi tuttavia a graziarlo della vita, ma che il condannava ad essere relegato nell’isola di Pantelleria per finirvi il resto dei suoi giorni.

E aggiunge “Il Mercurio Storico” uno dei primi fogli di notizie del tempo:

Cotesta isola è una delle meno grate della costa di Sicilia.  Egli (il Filomarino, ndr) albergherà nel forte appresso il comandante, al quale sarà ordinato di non perderlo di vista…

Il Re gli à accordato un ducato il giorno per il suo mantenimento, e per la sua sussistenza; ma à proibito di lasciarlo uscire dalla torre, senza essere bene accompagnato; per prevenire da un canto ch’egli non fugga, e dall’altro per non esporlo ad essere preso dai corsari di Barbaria, i quali fanno in quell’isola spessi sbarchi.

Dunque, la potente Casa Filomarino ha interceduto presso il re per ottenere per il suo membro la commutazione della pena di morte in quella della relegazione a vita. E Carlo III ha benevolmente acconsentito, anche perché al riguardo c’è analoga richiesta del papa in persona. D’altronde, che don Antonio Filomarino, per il suo lignaggio, fosse ancora persona di tutto rispetto lo si deduce anche dalla concessione dei trenta ducati mensili per la sua sussistenza, che sono superiori alla paga del comandante del castello di Pantelleria, e dalla preoccupazione di farlo uscire dalla fortezza soltanto scortato, affinché non cada preda dei corsari barbareschi, che, in quei tempi, ancora infestano con le loro incursioni le coste dell’isola.

E della sorte della bella e focosa marchesa?

C’informa il già citato “Il Mercurio Storico”, che scrive:

Rispetto alla dama, la quale si lasciò condur via, ella sarà restituita al suo consorte, e alla sua famiglia per essere rimessa in un chiostro, e purgare il fallo, che la sua leggierezza le à fatto commettere.

Nello stesso mese di agosto dell’anno 1750 la reale galea “Il Corriere del Mare” salpa da Napoli e veleggia alla volta dell’isola di Pantelleria con a bordo il principe don Antonio Filomarino.

Del seguito le cronache tacciono. Ma siamo convinti che il principe non sia restato relegato nel castello dell’isola fino alla fine dei suoi giorni e quindi sia ritornato un giorno a Napoli per grazia sovrana. Così come siamo convinti che, impenitente donnaiolo, non sia restato del tutto indifferente alla conturbante bellezza delle donne per cui l’isola di Pantelleria era famosa. Ma di quest’altre avventure amorose confessiamo di non sapere nulla. Lasciamo all’immaginazione del lettore.

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Autore Orazio Ferrara

Orazio Ferrara, docente, scrittore, saggista, nato a Pantelleria (TP), vive a Sarno (SA). Negli anni Settanta ha fatto parte del Gruppo 77, gli intellettuali della rivista romana Futurismo Oggi, diretta da Enzo Benedetto, amico ed allievo di Marinetti.