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L’indignazione à la carte

Prima pagina, venti notizie
Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
Si costerna, s’indigna, s’impegna
Poi getta la spugna con gran dignità
Don Raffaė – De André – Bubola/Pagani

Un grido si leva dalle piazze virtuali del nostro tempo, carico di rabbia e risentimento. Uno sciame di hashtag reclamano giustizia per ogni ingiustizia, uno sciame di post per ogni sopruso. Ci indigniamo, dunque siamo. L’indignazione è diventata la nuova religione laica di questi tempi iper-connessi.

Ma attenzione: non tutte le indignazioni sono uguali. Ce ne sono di singolari e ce ne sono di plurali. Ci sono quelle che fanno massa critica e vanno di moda, amplificate all’infinito dai megafoni dei media e dei social. E poi ci sono quelle scomode, quelle che ci interrogano da vicino sulle crepe e le ipocrisie del nostro quieto vivere.

È facile, dal divano di casa, postare il nostro sdegno per il disastro ambientale dall’altra parte del mondo. Più difficile è mettere in discussione le nostre abitudini e il nostro stile di vita.

Urlare “Not in my name!” di fronte all’ennesima strage di innocenti lontana migliaia di chilometri. Ma poi chiudere gli occhi, o peggio giustificare, la violenza vicina, quella tra le mura di casa.

Il nostro tempo crea mostri morali, creature para mitologiche capaci di incarnare tutto il Male del mondo: il CEO avido e senza scrupoli, il dittatore sanguinario del Paese esotico, lo stupratore di cui non conosciamo il volto. Il femminicida dell’ultima ora, che “sembrava tanto un bravo ragazzo”.

Demonizzare l’altro, il pazzo, il diverso, lo straniero, è fin troppo facile. Molto più difficile è riconoscere la violenza che alberga dentro ognuno di noi.

E allora, forse, dovremmo imparare una nuova forma di indignazione: quella verso noi stessi. Interrogarci sul perché chiudiamo un occhio, o tutti e due, di fronte alle ingiustizie vicine, quotidiane. Perché giustifichiamo i soprusi che ci convengono, quelli che non mettono in discussione il nostro status quo e il nostro ego grandioso.

L’indignazione è sacrosanta, ma a una condizione: che sia autentica, sincera, coerente. Che non sia usata come una comoda maschera dietro cui nascondere le nostre ipocrisie. Che non diventi, insomma, un self-righteous hashtag, un personal brand da esibire con noncuranza sui social, tra un aperitivo e l’altro.

Altrimenti è solo indignazione à la carte: ci indigniamo secondo nostro comodo e interesse. Mettiamo like, commentiamo, condividiamo. E l’indomani mattina ci svegliamo, guardiamo fuori dalla finestra, e non è cambiato nulla.

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Autore Raffaele Mazzei

Da bambino, mia nonna mi raccontava storie straordinarie che mi facevano sentire speciale. Storie che mi hanno insegnato che comunicare è toccare il cuore con un’intenzione pura. Non basta informare. Bisogna creare una connessione autentica con il proprio pubblico, facendogli sentire che fai parte della sua storia, del suo progetto, del suo sogno. Oggi le neuroscienze lo confermano: il coinvolgimento emotivo aumenta l’attività e la recettività cerebrale. Io ne ho fatto la mia professione. Sono Raffaele Mazzei, esperto di comunicazione e copywriter. Con il mio team di professionisti, ti aiuto a creare un messaggio che fa la differenza. Un messaggio che non impone, ma conquista. Che non manipola, ma ispira. Vuoi scoprire come? Visita il mio sito www.raffaelemazzei.it e scopri l’Arte di comunicare.