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Perché potrebbe essere importante un ministero all’integrazione

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Elezioni politiche


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Una proposta per porre rimedio al crescente odio sociale e alla disaffezione dei cittadini rispetto alla politica

Correva il 1994, l’anno 0 della famigerata seconda repubblica.

Quando lo sfascio a cui stava andando incontro la politica era solo accennato e non ancora clamorosamente evidente come oggi, così come i disastri conseguenti la stagione referendaria.

Per la Camera dei deputati era vigente il sistema dei collegi uninominali. Non esisteva ancora l’odierna frammentazione ed era ancora possibile scegliere chi votare.

Mi trovavo ad un incontro piuttosto intimo di uno dei 3 candidati sul mio collegio.

Sì, avete letto bene. I candidati erano 3, votati su un territorio ristretto al quale erano legati.

Questo ti permetteva ancora di guardarli in faccia, negli occhi. Di parlarci.

Ti ci potevi confrontare.

Tornando al nostro aspirante Onorevole, passò tutto il tempo a parlare del motivo per il quale non si dovevano votare gli altri due.

Domande dal pubblico.

Ebbi la simpatica idea, visto che aveva diffusamente spiegato perché erano impresentabile gli altri, di chiedergli per quale motivo, invece, dovessi votare lui.

Qualche rimbrotto, il suo imbarazzo nel tirar fuori un vago discorso basato su ideali che a me, che venivo da studi sociologici, sembrava piuttosto datato.

Devo ammettere che la politica è stato un mio peccato di gioventù.

Mi ha portato, quando tutto sommato ero ancora ragazzino, ad essere consigliere comunale, entrare in direttivi, salire sui palchi.

Ho vissuto uno scorcio della prima repubblica, quando ovviamente non tutto era perfetto, ci mancherebbe, ma eri abituato a sentir parlare, in rigoroso ordine alfabetico, personaggi della levatura di Almirante, Berlinguer, Moro.

Paradossalmente, il sistema proporzionale garantiva, in qualche modo, la qualità.

I partiti avevano ancora un ruolo, soprattutto quello di assicurare il radicamento con i cittadini, di fare da interfaccia, da mediazione, tra le istituzioni e la gente.

Allora era ancora gente, non solo elettorato.

E i partiti riuscivano a formare e selezionare una classe politica dirigente.

I ragazzi, negli organi giovanili come in strutture collaterali, erano abituati a ragionare in termini di confronto. Leggevano i classici e, aiutati da persone più esperte, analizzavano gli scenari locali come quelli nazionali.

Questo creava anche un senso di appartenenza, di lealtà.

Nessun sistema sociale dura molto senza.

Ricordo direttivi infuocati, dove ci si scontrava tra diverse visioni, o correnti, come si chiamavano allora.

Volavano anche insulti, le sedie, qualche volta.

Ma quando c’era una linea vincente diventava quella del partito.

Sarebbe stata difesa all’esterno anche da chi l’aveva osteggiata fino a qualche minuto prima.

Essere sospesi dal partito era un’onta che ti costringeva a non uscire di casa per la vergogna.

Oggi, se non si è d’accordo con la linea nazionale, si cambia partito. Si fa una scissione. Si formano soggetti politici da un giorno all’altro.

Con le esortazioni a non sostituire spesso la biancheria intima, per l’emergenza ambientale ed energetica, oggi in Italia si cambiano più frequentemente le casacche che le mutande.

In quel ricordo del 1994 ci sono tutte le avvisaglie, per chi era capace di coglierle, di quella che sarebbe diventata la politica oggi.

Di quella personalizzazione della politica che il maggioritario avrebbe portato con sé.

Altra confessione. Da ragazzino che voleva il cambiamento, anch’io ho appoggiato, attivamente, il movimento referendario.

Allora ‘attivamente’ significava salire sul palco, intervenire a convegni, ma anche attaccare manifesti e girare con macchina e megafono.

Con il senno di poi, avrei votato un secco No.

Avrei convinto ad un secco No anche quel pugno di persone che mi chiedeva cosa fare ad ogni consultazione elettorale.

Anche se, ovviamente, il mio voto non sarebbe stato determinante, oggi credo di aver commesso, allora, un errore enorme. Soprattutto come studente di sociologia, quando ancora nelle università italiane si studiava e si poteva essere bocciati, avrei dovuto cogliere alcuni preoccupanti segnali.

L’errore di pensare che un sistema elettorale potesse formare una nazione. Cambiarla in meglio.

Le ragioni del maggioritario erano sostanzialmente due, avrebbe portato ad una semplificazione del quadro politico, verso due grandi blocchi, prima coalizioni, poi, magari partiti unici, come capita nel mondo anglosassone. E ci sarebbe stata stabilità di governo. Un partito che vince le elezioni, uno che le perde e fa da opposizione, fino al prossimo avvicendamento di ruoli, in una sana democrazia dell’alternanza.

Esattamente quello che è successo in Italia. Più o meno.

Ma il problema non è solo che invece dei 7 o 8 partiti della prima repubblica ce ne siano i 700 – 800 di oggi in continua crescita.

E nemmeno che ad ogni tornata elettorale abbiano vinto tutti al punto che per formare un governo si debba ricorrere a formule folkloristiche, improbabili e pittoresche, se non a vere e proprie ammucchiate ‘per il bene del paese’.

No.

Il problema è che il maggioritario, calato dall’alto, ha innescato una personalizzazione della politica basata sul mero fattore numerico.

Dove uno conta uno.

Ancora ricordi.

Le tanto bistrattate quaterne alle comunali, permettevano in qualche modo ai partiti di selezionare una classe dirigente.

Ogni corrente sceglieva un cavallo di razza, più di uno se aveva la forza elettorale sufficiente, e lo faceva sostenere da altre candidature, che avevano la funzione di portare acqua, da capielettore e da famiglie che lo facevano eleggere in Consiglio comunale. Anche se di suo non aveva una base elettorale.

Con la preferenza unica il portatore d’acqua è diventato protagonista in prima persona. Non importa se poi può firmare gli atti solo con la croce. L’arroganza dei numeri è dalla sua.

Uno vale uno.

Ed ecco che si attiva un circolo vizioso.

Questo meccanismo ha privato i partiti del ruolo che ricoprivano o l’incapacità dei partiti ha favorito questo meccanismo?

È nato prima l’uovo o la gallina?

Non importa saperlo.

La conseguenza è che la formazione e la gavetta politica non esistono più.

Fino a qualche decennio fa, nella tanto criminalizzata prima repubblica, per fare l’assessore dovevi fare prima il consigliere comunale.

Poi, forse, facevi il sindaco, il consigliere provinciale, il consigliere regionale, il deputato.

Oggi si arriva a fare il ministro senza conoscere la Costituzione, senza nessuna esperienza amministrativa, senza nemmeno esperienze lavorative significative. Senza aver studiato.

Sei ministro all’università. Che importa se in un ateneo non hai mai messo piede?

Tanto uno vale uno.

Anche se, ormai, di ministri e premier ‘titolati’, che hanno provocato disastri immani, ne possiamo riempire enciclopedie.

Ma la cosa peggiore non è questa.

Sì, ci sono delle conseguenze ancora più gravi.

La personalizzazione della politica ha portato ad un confronto, o meglio scontro, che non si basa più sui programmi, su diverse visioni di sviluppo di un territorio più o meno vasto.

No, si basa sulla criminalizzazione dell’avversario.

Il candidato del 1994 che già spiegava che farabutti fossero i suoi due competitori.

Indubbiamente una prassi frutto della personalizzazione della politica.

Dei modelli di comportamenti, che inizialmente erano frequenti tra esponenti politici, vengono estesi alla popolazione.

Non ci si ferma più all’insulto nei confronti degli antagonisti.

La macchina della propaganda comincia a gettare fango anche sugli elettori del proprio contendente, etichettati in ogni modo possibile.

O verso la magistratura. Una sentenza che non piace è una ‘vergogna’, è ‘irricevibile’.

Quindi, chi la pensa come me è nel giusto, chi la pensa diversamente è da emarginare.

Nel 1969 lo psicologo canadese Albert Bandura conia il termine ‘modellamento’ per riferirsi ad una ben precisa modalità di apprendimento.

Arriva ad affermare che gran parte dell’apprendimento derivi proprio dall’osservazione dei comportamenti delle persone che possono essere prese come riferimento.

Bandura, nei suoi esempi, parla esplicitamente di leader politici.

Il segretario del mio partito insulta gli avversari? Faccio lo stesso con il vicino di casa alla prossima riunione di condominio.

Alla trasmissione politica urla e non fa parlare gli altri? Bello, ci provo io in ufficio con i colleghi.

Questo ha portato a diffondere in Italia una cultura della divisione, che dalla sfera politica si è estesa ad ogni altro ambito sociale.

Leggevo proprio in questi giorni che il neo proprietario di una squadra campana ha affermato che chi lo critica non è tifoso.

Il confronto lascia spazio all’esclusione.

Ciò non vuol dire che le colpe siano tutte della politica. Certi atteggiamenti attecchiscono perché ci sono dei presupposti sociali affinché questo avvenga.

Ma la politica non fa nulla per arginare la tendenza, anzi, la incentiva, la alimenta in continuazione.

La gestione della pandemia è stata tutta improntata sull’esclusione.

Il nemico è chi porta a spasso il cane.

Il nemico è chi non mette la mascherina.

Il nemico è chi non si vaccina.

Il nemico… qualcuno da additare per ogni problema e per ogni mancanza della politica.

Ogni fazione plasma le sue schiere di odiatori seriali pronte a linciare mediaticamente i ‘nemici del popolo’.

Di come queste dinamiche ricalchino pericolosamente 1984 di Orwell ho parlato diffusamente in un mio recente articolo.

La politica oggi si basa sulla cultura della contrapposizione, dell’odio.

Dal ruolo che doveva avere di riconciliazione di interessi, di armonizzazione di istanze sociali finisce per utilizzare le differenze, per acuirle, per incancrenirle.

Una delle affermazioni più gravi in cui questo processo diventa devastante è stata pronunciata dal dimissionario presidente del consiglio dei ministri lo scorso novembre.

E aggiunge l’auspicio che i non vaccinati “possano tornare a essere parte della società con tutti noi”.
Mario Draghi, conferenza stampa del 24 novembre 2021

Una parte di italiani, anche consistente, viene definita come non facente parte della società.

Messa all’indice come composta da soggetti fuori casta, come dei paria.

Il presidente del consiglio, soprattutto uno che viene chiamato come super partes, che quindi rappresenta tutti gli italiani, senza distinzione, non può mettere in atto dei meccanismi di esclusione sociale così netti.

La domanda è una sola, a questo punto.

Cui prodest?

Sicuramente non ai partiti, che hanno perso completamente il loro ruolo. Ormai sono diventati soltanto un’etichetta intercambiabile.

La politica oggi la fanno i soggetti, non i partiti.

Alla Politica? Quella con la P maiuscola?

Nemmeno.

I dati di afflusso alle urne sono drammatici.

Sempre nei miei ricordi ci sono tornate amministrative, comunali soprattutto, con affluenze altissime, anche vicine al 90%.

Oggi ci sono sindaci eletti al primo turno con un 20% di votanti. Al netto di nulle e bianche si può diventare primo cittadino con appena il 10% dei consensi sul totale degli aventi diritto.

E questo accade anche perché le forze politiche hanno usato l’astensione per affossare una delle pochissime forme di democrazia diretta, il referendum.

‘Andate al mare’ è diventato uno slogan dell’incentivo all’astensione.

Come posso pensare che votare è utile se, a turno, mi invitano a non farlo?

Il 10% può definire un sindaco. Un terzo del paese può dare vita ad una maggioranza parlamentare.

Perché castrare i referendum con il raggiungimento del quorum?

Il cittadino medio è letteralmente ‘schifato’ dalla politica.

Se tutti si definiscono reciprocamente delinquenti, farabutti, impostori e chi più ne ha più ne metta, allora se vado a votare devo dare per forza la mia preferenza ad un delinquente, ad un farabutto, ad un impostore.

Allora preferisco non votare.

La distanza tra società civile e politica non è mai stata così forte. E tende a crescere.

Quindi, nemmeno alla Politica conviene una situazione del genere.

Chi ne beneficia?

Chi invece di fare politica mira alla gestione, chi è interessato. Meno persone votano più le truppe cammellate sono decisive.

Più le truppe cammellate sono decisive più l’occupazione della cosa pubblica diventa semplice e sistematica.

La legge elettorale permette agli ‘interessati’ di decidere dove far eleggere i propri uomini, spesso le proprie ‘teste di legno’.

Oggi, le dinamiche elettorali sono mera contrapposizione di interessi.

Che, quindi, naturalmente tendono ad esasperarsi.

Di fronte ad una tale deriva, cosa fare?

La nostra proposta è quella dell’istituzione di un ministero dell’inclusione.

La lanciamo a tutte le parti in causa.

Che vinca il centro destra o il centro sinistra, che ci sia un governo tecnico o un altro ‘governo dei migliori’.

La finalità?

Tornare alla Politica come conciliazione, come confronto.

Come farlo?

I modi sono tanti e tutti percorribili in presenza di quella che una volta si chiamava volontà politica.

Si potrebbe partire da un codice di autoregolamentazione, approvato da tutte le forze che andranno a comporre il prossimo parlamento.

Simile a quanto hanno fatto alcuni ordini.

I giornalisti, ad esempio.

Delle regole di comportamento da rispettare per ridare dignità all’agone politico. Che riporti al centro la discussione su modelli alternativi di sviluppo e non la ricerca dell’insulto più originale.

Urgente ci sembra anche una riforma elettorale, che restituisca al cittadino la possibilità di scegliere i propri rappresentanti.

Più le decisioni sono calate dall’alto, più il baratro diventa incolmabile.

Chiamateci nostalgici, ma a noi piacerebbe un ritorno al proporzionale.

Come dicevamo, i danni fatti dal maggioritario sono tanti, a fronte di vantaggi inesistenti.

Ma basterebbe ripristinare le preferenze. Basta con liste e listini bloccati come misura antitrombatura dei fedelissimi degli interessati.

Si potrebbero mettere realmente in atto quelle forme di partecipazione popolare teorizzate negli anni 90 e poi mai veramente attuate. Ci riferiamo a consulte di settore o forum giovanili, ad esempio.

E si potrebbe eliminare il quorum per i referendum, così da impedire a chi si sente perdente di invitare all’astensione.

E la parola d’ordine dovrebbe essere, appunto, quella dell’inclusione. Ci sono sempre più poveri in Italia, le fasce più deboli come giovani, anziani, disabili, sono sempre meno tutelate.

E perché non parlare anche di una riforma degli ordini? Magari proprio a partire da quello dei giornalisti?

La qualità e l’equilibrio dell’informazione sono importanti in un processo di pacificazione sociale.

Perché rispetto ad alcune categorie gli aggettivi vanno misurati con il bilancino e di altre si può dire peste e corna? Questo come misure urgenti, che ci proponiamo di sviluppare in prossimi articoli, unitamente ad altre idee che vanno nella stessa direzione.

Se si escludono fette di popolazione sempre più ampie il risultato può essere solo l’inesorabile rovina verso la quale ci stiamo avviando.

Se si fomenta l’odio questo non può fare altro che alimentare una pericolosa polveriera che, prima o poi, scoppierà.

Una delle priorità della prossima legislatura dovrebbe essere proprio questa.

E quale migliore segnale se non quello di delegarla ad un apposito ministro?

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Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.