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“Pazienti inGattiviti”: intervista esclusiva a Barbara Napolitano

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Pazienti inGattiviti, di Barbara Napolitano


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Nel suo nuovo libro una ricetta per guarire dall’ansia e sopravvivere, un giorno dopo l’altro

Barbara Napolitano, scrittrice, antropologa, regista e docente di cinematografia, ci racconta del suo ultimo romanzo, “Pazienti inGattiviti“, uscito in cartaceo nel luglio 2016 e in e-book in questo mese di settembre. Volume coinvolgente, che si legge tutto d’un fiato, che appassiona e fa sorridere mentre mostra una delle possibili vie per guarire dall’ansia, abbattere le difese tra sé e il mondo ed emozionarsi di nuovo di fronte alla vita.

Il libro ha molti riferimenti letterari importanti più o meno immediati, Proust, Joyce, Beckett, Pirandello, Saramago, così come atmosfere che ricordano Pennac e tantissimi nessi con la società attuale, reality show, pornostar. Quali spunti letterari ci siamo persi? Che rapporto hai con questi autori?

Ho passato la vita a leggere. Porto con me un libro sempre. Quando qualcuno tira fuori il telefonino nella fila alla posta, io ho pronto un libro. Ho debiti nei confronti di tutti gli autori citati, ma in Pirandello e Pennac ho trovato “Barbara”. Perché nella dimensione della follia che attraversa la realtà, secondo me, è la chiave stessa dell’esistenza.

Pirandello e Pennac mi hanno fatto sentire meno sola, per il primo nutro una venerazione da figlia, mentre il secondo è più un fratello incontrato per strada, dal momento che avevo già scritto “Il mercante di favole su misura” quando ho letto “La fata carabina”.
Si è trattato, in ogni caso, di una rivelazione: la possibilità che in un dialogo si potessero mettere tre puntini sospensivi “…”, per esempio, ad indicare uno stato d’animo oltre che una risposta e che l’autore li utilizzasse per segnalare il fatto che non si era in presenza di un semplice silenzio, mi è sembrato semplicemente geniale.

Proust e Joyce, invece, sono un rifugio, la tana nella quale trovare conforto quando il mondo intorno diventa troppo spietato ed allora la cifra poetica è un modo, o almeno lo è per me, di sfuggire al brutto che mi circonda.
Tanto il mio lavoro di regista, quanto la professione di antropologa, mi hanno messo in contatto continuo con una interpretazione della realtà che si nutre di reality e talk show che raccontano una storia in “moduli”.

La durata di ciascuna storia ha un tempo di attenzione, in “Pazienti InGattiviti” questo non lo dimentico mai. La durata di attenzione per ciascun paziente, protagonista compresa, fa molto i conti con questo ritmo imposto dal mondo che frequento.

Sicuramente, poi, tra gli autori che hanno fatto da faro c’è Italo Calvino, al quale devo talmente tanto da citarlo esplicitamente proprio nel finale, con particolare riferimento ai suoi racconti, nei quali non c’è, a mio parere, una parola più del necessario.

Le follie e le fobie sembrano caratterizzare i nostri tempi, ma in fondo hanno qualcosa di atemporale, sono bisogni ed ossessioni ancestrali. Perché hai scelto proprio quelle?
C’è forse un filo conduttore tra loro? A che simbologia fanno riferimento?

Il filo conduttore di tutte le fobie, che apparentemente sono molto diverse tra loro, è la paura di “vivere” spesso manifestata, al contrario, come paura di morire. Mentre la paura di morire è sicuramente ancestrale, la “paura di vivere” trovo che sia una scoperta del nostro tempo. Questo romanzo è soprattutto la storia di tali fobie e della paura di vivere.
Certo non avendo le competenze per entrare nel dettaglio delle patologie, e non volendo neanche farlo dal momento che si tratta appunto di un romanzo e non di un trattato di psicologia, racconto una storia che ha a che fare con quello che da donna, da scrittrice, da antropologa osservo ogni giorno.

Ho raccolto tante testimonianze di gente che “non sta bene”, che fa fatica a vivere, che troppo spesso si etichetta semplicisticamente come malata o depressa. Termini oramai tirati fuori, francamente, con troppa leggerezza. Alcuni incontri si sono costituiti divenendo, senza saperlo, materia di romanzo.
Tanti altri casi, invece, sono diventati parte del racconto soprattutto prendendo ispirazione da un lavoro svolto come antropologa sulle “storie di vita” di donne meridionali, in cerca di occupazione, di età compresa tra i trenta ed i quarantacinque anni.

Simbolicamente tutti i personaggi sono racchiusi in un cerchio di disagio, individuale e sociale, anche quelli che in teoria non dovrebbero esserlo. Si salvano solo i gatti, appunto, essi stessi simbolo salvifico dal momento che rappresentano da sempre la libertà.
Il titolo è dunque proprio un gioco di parole contrastanti, dal momento che l’inGattivimento dei pazienti consiste proprio nella loro raggiunta libertà e non in un incattivimento, anche se per diventare liberi saranno costretti proprio ad arrabbiarsi…

Viene mostrato un continuo gioco di apparenze, mentre in sostanza tutto è diverso.
Cosa impedisce ai protagonisti, ma anche nella vita vera, di analizzare le situazioni per come sono? È una forma di autoprotezione, forse la mancanza di amore o altro?
La guarigione, alla fine, arriva come accettazione della realtà dopo un percorso che è stato fino a quel momento quasi masochistico. Cosa scioglie la contraddizione?

Parto dalla fine. La contraddizione è sciolta dalla fine della lotta. Mi spiego. Quando non si diventa la persona che si vorrebbe essere, invece che individuare in se stessi le ragioni che impediscono questa maturazione nel senso che il soggetto desidera, l’individuo sceglie di nascondersi dietro un impedimento che egli stesso produce, ma senza riconoscere se stesso in quella produzione. I protagonisti fissano sulla paura e non sulle sue cause la propria attenzione, questo rende impossibile la guarigione.

Diversi terapeuti, a tal proposito, sostengono che per impedire alla propria fobia di prendere il sopravvento sia necessario ripetersi «io sono qui ed ora», proprio per evitare che le elucubrazioni folli prendano il sopravvento sulla realtà e sulla possibilità del soggetto di vivere «normalmente».

La soluzione che trova il romanzo, quasi a provocare un secolo e più di terapie, è proprio in questa scelta: smetto la lotta. Mi abbandono all’osservazione delle mie paure invece che inventare metodi per fuggire ad esse. Mi consegno. Nel consegnarsi la paura diventa meno estranea e dunque comincia ad essere più familiare, una paura familiare è meno paurosa… ma, ripeto, questo è un romanzo che racconta della conoscenza di “una” soluzione, la mia.

Nonostante la protagonista sembri aver “accettato” l’amore, alla fine non può far a meno di mantenere qualche riserva. Si tratta solo di qualche ultima resistenza o è l’incapacità di lasciarsi andare fino in fondo?

L’amore al quale Ileana, la protagonista, si consegna, è quello per il mondo. Capisce questo.
La storia del momento è importante, ma potrebbe non essere per sempre… il desiderio di esclusiva, di appagamento, di ricerca dell’altro mina la possibilità di maturare come persone, come individui, perché l’altro è stato per la sua storia personale un ostacolo più che un compagno di crescita. Ma è la sua storia…

Il libro è troppo costruito nei dettagli perché la scadenza dei due anni che la protagonista si dà per ritrovare se stessa sia casuale. Qual è la simbologia legata a questo periodo?

Non lo è, infatti. Due anni, due le parti del libro, due le voci narranti, due le identità della protagonista, due i gatti, due: un maschio ed una femmina.
Ho tenuto molto conto del tempo che sarebbe stato necessario a produrre nella protagonista un apprezzabile cambiamento non solo nella sua vita, ma pure nel suo modo di leggere e decifrare il mondo.
Un anno sarebbe stato troppo poco e tre anni mi sembravano troppi per consentirle di ritrovare facilmente gli ex pazienti sulle tracce dei quali lei ritorna.

Nel romanzo non si fa alcun accenno ad una città specifica, potrebbe infatti essere ambientato ovunque. Uno dei rarissimi esempi di personaggi reali cui si fa riferimento è il campione partenopeo Massimiliano Rosolino con cui Maria Rosaria sceglie di dare una svolta alla sua vita, che ci è sembrato un rimando indiretto a Saramago. Perché proprio Rosolino? La presenza del campione partenopeo, naturalmente, è l’unico collegamento ad una città reale, ovvero Napoli, ma cosa altro rappresenta?

Qui il mio lavoro come regista televisiva ha la sua responsabilità. Rosolino è stato spesso presente anche come ospite in tv, ma soprattutto protagonista di due reality: “Pechino Express” e “Ballando con le stelle”, dimostrando a differenza di tanti vip una vera attenzione alle persone. Nel senso che nei momenti del fuori onda l’ho spesso visto grandemente disponibile nei confronti delle signore di una certa età che gli chiedono foto ed autografi. Nella sua partecipazione a “Pechino Express”, poi, tutto il suo spirito di adattamento e la sua anima napoletana sono venute fuori alla grande, proprio come quando entriamo in un locale sperduto nella foresta equatoriale e vi troviamo un napoletano perfettamente adattato… faccio per ridere.

La prestanza del soggetto poi lo rende particolarmente utile ad immaginarlo come oggetto di un amore a prima vista, come quello di Maria Rosaria.

L’altro riferimento a personaggio famoso è quello a Giorgio Armani ed anche lì averlo conosciuto ha giocato la sua parte.

Abbiamo notato vari punti di contatto tra questo romanzo e il tuo precedente successo letterario, “Allora sono cretina”, la stessa insofferenza di fondo che si manifesta con l’urlo iniziale. In cosa si assomigliano e in cosa sono diversi?

“Allora sono cretina” è un racconto spudoratamente di parte: la narrazione di una donna che pretende di essere tutte le donne. La sua forza è proprio la sua banalità, in un arrendersi all’imperfezione della protagonista che si sente inadeguata ai ritmi ed alle pretese della vita moderna, ma è perfettamente integrata in essa. Il disagio di Bianca, la protagonista, che pure c’è, la fa riconoscere in un disagio che la rende uguale a tante donne. Persino nel suo lamentarsi riconosciamo la donna che non permette a nessuno di dire che “non ce la fa”, se non a se stessa. Proprio per questo nella traduzione teatrale del romanzo ho dato più spazio ad un maschile fortemente irrisolto. Dirò di più, forse proprio il lavoro che conducevo contemporaneamente alla rappresentazione teatrale di “Allora sono cretina”, sul disagio sociale ha “inquinato” il testo teatrale. “Allora sono cretina”, poi, ha una verve comica che “Pazienti InGattiviti” accoglie solo in parte.

Quest’ultimo, infatti, è un racconto decisamente corale, di una società; certamente c’è una donna con un ruolo ed una parte importante, ma il testo è focalizzato sulle azioni e sui pensieri più ancora che sui personaggi.È il motivo per il quale tutta la scrittura è introdotta, come accadeva per i gialli di qualche anno fa, dalla presentazione dei personaggi, e della protagonista come personaggio tra i personaggi. E proprio come un giallista un po’ mi sono comportata, volendo usare appunto, come dicevi prima, il gioco delle parti per arrivare alla soluzione del mistero.
Si guarisce dall’ansia, dalle fobie, dal male di vivere? Sfidando apertamente la psicoterapia, questo romanzo sostiene di sì.

In attesa della recensione che pubblicheremo a breve, ringraziamo Barbara Napolitano per la sua squisita disponibilità e segnaliamo il link della pagina da cui è possibile acquistare “Pazienti inGattiviti” sia in versione cartacea che in e-book:
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/260115/pazienti-ingattiviti/

Barbara Napolitano

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Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.