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Il Mausoleo Schilizzi

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Mausoleo Schilizzi Napoli


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Napoli 2010
Pasqua. Via di Posillipo. Con Ele ci fermiamo all’Ara Votiva per i caduti della patria, il sacrario per i caduti della Prima e Seconda Guerra Mondiale e delle Quattro Giornate di Napoli, conosciuto anche come Mausoleo di Posilipo, prima ancora come Mausoleo Schilizzi o anche “’a tomba ‘e Schinizze”.
È la prima volta che vi entriamo. Un parco alberato con una strada che in salita porta al Mausoleo. Sali sulle scale dell’edificio, ti giri e vedi un corridoio di luce tra gli alberi con infondo il mare. Un incanto!

Si arriva da una strada trafficata, una strada che parla ad alta voce. Si entra e tutto svanisce. Il silenzio ti prende all’improvviso, come una bolla che avvolge. Si cammina lentamente verso le scale. Gli alberi ti guardano dall’alto.

Hai la sensazione di essere iniziato a quei misteri sacri agli Egizi. Come se il Corpo alessandrino di Napoli fosse lì ad accoglierti a nuova vita. Il Corpo che possiede centinaia di anime al suo interno.

Ci pensi e il senso di rispetto supera il timore. Il tempio è lì davanti. Sali le scale.
Il colonnato. La porta d’accesso. Le due cariatidi ai suoi lati ti fissano. Alte, dai volti sofferenti e smunti, le braccia incrociate al petto su due rami di palma che partono dalle gambe e superano le spalle che si incrociano al petto. Dal regno dei morti posti lì a guardia del tempio. Lateralmente al Mausoleo, poggiate alle pareti, tra statue di ricordo egizio, stanno ferme e osservano stringendo ognuna tra le mani, al petto un grande ankh.

Il sacrario, realizzato in stile neo-egizio tra il 1881 e 1889, è annoverato tra i più interessanti edifici di questo stile in Italia.

Matteo Schilizzi, di origine ebrea, come raccontato da Camillo Guerra, nasce nel 1861. Banchiere livornese, apparteneva alla nobiltà di Chios, isola greca che rimase sotto il dominio della Repubblica di Genova fino al 1566 quando l’Impero Ottomano, dopo lungo assedio, se ne impadronì. Secondo Philip Pandély Argenti gli Schilizzi, facenti parte della “Pentada”, la cerchia delle prime cinque famiglie nobili dell’isola, erano di origine bizantina, Skylitsi, e divisa nei rami di Arabà, Orphanoi, Karapiperi e Misè o Iatri.
La genealogia inizia con Emmanuel nato a Chios nel 1590 e morto nel 1650.

Matteo, quindi, proveniva da una famiglia che per secoli aveva intrattenuto scambi commerciali con Genova, prima e con l’Impero Ottomano poi, creando, così, la propria ricchezza. Era un uomo singolare e generoso che aiutò molti indigenti durante il colera del 1884 e fondò, insieme alla duchessa Ravaschieri, l’ospedale “Lina Ravaschieri” nel 1900, primo ospedale ortopedico per bambini. Non riuscì più a vivere, però, nella città di Livorno da quando il disgusto per la profanazione della tomba di famiglia da parte di alcuni ladri divenne insopportabile. Quel gesto spinse Matteo a trasferirsi a Napoli nel 1880. L’ossessione per ciò che era accaduto lo tormentava. Decise, così, di ricostruire il sepolcro familiare sulla collina di Posillipo. Decisione presa anche in seguito alla morte in Africa del fraello Marco. La realizzazione dell’opera fu commissionata all’architetto Alfonso Guerra.

Lo Schilizzi, impegnato nella politica e nel giornalismo, era uno dei maggiori finanziatori del Corriere di Napoli e nel 1889, quando il mausoleo era quasi terminato, probabilmente anche per questioni economiche, fece sospendere i lavori non solo del sepolcro, ma anche di un palazzo che commissionò allo stesso Guerra in piazza Amedeo.

Morto Matteo, il Mausoleo fu donato all’amico che l’aveva accolto quando era arrivato a Napoli, l’ingegnere Tommaso D’Angelo.

Nel 1920 l’architetto Alfonso Guerra morì senza vedere terminata la propria opera. Il figlio Camillo, con l’aiuto di vari intellettuali napoletani, tra i quali Benedetto Croce, per paura che terra e sepolcro fossero venduti a privati che l’avrebbero distrutto per edificarvi case e palazzi, suggerì al Comune di Napoli di acquistarlo per destinarlo a sacrario dei caduti della guerra da poco terminata, offrendosi di completare l’opera.

Nel 1923 la proposta fu accettata e Camillo fu nominato presidente della commissione tecnico-artistica che avrebbe poi completato i lavori. A Giovanni Battista Amendola furono commissionate le cariatidi che aveva presentato all’Esposizione di belle arti che si tenne a Roma del 1883. Nel 1929 vi furono trasferite le salme dei caduti dal cimitero di Poggioreale.

L’esterno è austero, un tempio egizio che incute timore e rispetto. L’interno, invece, è decorato con posati, equilibrati motivi arabeggianti, fuidi e leggeri.

L’antico Egitto delle scoperte di quel cavallo di secolo. Il sentimento, il legame antico e viscerale che Napoli ha con i culti arrivati da quella Terra Nera. Quel connubio di simbolismo cristiano, greco, ebraico, egiziano e arabo. I corpi qui custoditi fanno del Mausoleo Schilizzi un luogo sacro, il Tempio per eccellenza di una mente illuminata.

Oggi, purtroppo, è abbandonato a se stesso. Una grande scatola affascinante che sta cadendo a pezzi un po’ per volta. Come le salme che custodisce sta scomparendo lentamente. Possente, distratto, decadente il tempio continua ad osservare il mare.

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!