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Stephen King


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Tra citazioni improbabili e risposte impossibili

Perché scriviamo?
Posto che non mi riferisco tanto allo scrivere come “obbligo” derivante da una professione.
Se sono giornalista, copywriter o svolgo un qualsiasi altro mestiere che sia legato allo scrivere scrivo perché questo è il mio mestiere.
Eventualmente ci sarebbe sempre da chiedersi perché si sia scelto o si sia stati scelti da un lavoro che presuppone lo scrivere, ma forse si finirebbe solo a riproporre la domanda iniziale: perché scriviamo?

Mi sovviene una citazione che in realtà non dovrebbe essere citata, per il semplice motivo che non ne ricordo l’autore, non saprei attribuirla. Di solito sono cose che taglio ai miei redattori, dopo aver motivato in mille modi perché citare a casaccio non sia opportuno.
Però le regole sono fatte per essere anche violate, ogni tanto. L’importante è conoscerle. L’importante è la consapevolezza che si stia appunto contravvenendo ad una regola.

Metto una virgola dove so che non ci vorrebbe, se credo che quella virgola aggiunga qualcosa, dia alla frase, al discorso, un ritmo diverso, la metto uguale.

Una cosa è infrangere una regola per ignoranza, altro è farlo per scelta.
In questo caso è una frase che mi frulla in testa da giorni, non la ricordo nemmeno precisamente, non sono certo di chi ne sia l’autore.

Non so cosa scrivere, non so perché scrivere, so soltanto che devo scrivere.

Mi viene in mente il nome di Laurence Sterne, ma sono quasi certo che non sia effettivamente sua.
Anzi, se qualche lettore ne dovesse appurare la reale paternità saremmo felici di averne la segnalazione.

Per il momento, dunque, possiamo semplicemente definire la frase come un generico “riferimento”.

O forse è mia, forse ho solo immaginato di averla letta da qualche parte.

A volte le cose più reali succedono solo nell’immaginazione. Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto.
Marina – Carlos Ruiz Zafón

La domanda torna. Non abbiamo ancora risposto, siamo ben lontani da farlo, a dire il vero.

Perché scriviamo?

La voglia di essere letti non è motivazione sufficiente.
Non spiegherebbe, altrimenti, tutto quello che scriviamo pur sapendo che non ci leggerà mai nessuno; soprattutto perché non lo vogliamo.
Frasi scarabocchiate e poi cancellate, anche se solo virtualmente, su fogli di un word processor.

Poesie che scriviamo e poi bruciamo, e non importa se le diamo alle fiamme semplicemente perché pensiamo che la poesia debba rimanere qualcosa di intimo, perché non ci piace quello che abbiamo scritto, o semplicemente siamo consapevoli sin dall’inizio che non troveremo parole adatte ad esprimere quello che vorremmo.

Versi che l’anima
stenta a partorire,
Come lacrime che
non vengono fuori,
timide rime soffocate
nelle fitte pieghe
di inquieta coscienza.

Parole nere d’angoscia
rifiutano di profanare
lo sbiadito candore
di leggeri silenzi.

Grevi pensieri
raminghi si perdono
oltre l’incubo
di impossibili orizzonti,
nell’insanabile assenza
di plausibili segni
atti a svelarli.

Forse si scrive proprio per un’esigenza interiore, per dare forma a idee, emozioni, che siano negative o positive non importa.

Forse per alcuni scrivere ha una funzione catartica.
Tumulti, passioni, dolore, gioia, in qualche modo, nel momento in cui vengono messi su carta, diventano qualcosa di esterno, rispetto al quale si può prendere le distanze, per elaborare, per purificarsene.

Mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo.
Cyrano – Francesco Guccini

Spesso scherzando dico che scrivo perché così mi risparmio di andare in analisi. A volte, e solo a volte, penso che forse non è poi tanto diverso dalla verità.

Questo non significa che la scrittura debba esprimere per forza qualcosa di emotivamente negativo. Altrimenti saremmo tanti Leopardi in erba, e anche sul presunto pessimismo del poeta di Recanati ci sarebbe tanto da dire, ma non è certamente argomento che ci interessa approfondire; magari ci torneremo in altri scritti, o magari no.

Scrivere è un atto di volontà, forse uno dei più alti, e non si limita alla esternazione terapeutica di conflitti interiori o di sofferenze irrisolte.

Scrivere può anche avere la funzione di reificare qualcosa di positivo che ci è capitato; “fissarlo” può essere l’equivalente del classico pizzicotto, oppure la risposta all’esigenza di fotografare un attimo di perfezione, uno stato di grazia.

In alcuni casi scrivere può essere un meccanismo di fuga. Altra citazione appesa: qualcuno riferendosi agli scrittori affermò che narrano quello che non hanno il coraggio di vivere.

In fondo un foglio bianco può spaventare o può significare infinite possibilità.

La metafora dello scrittore come creatore, come “divinità” è fin troppo abusata e richiamata da tanti autori.

In effetti, nello scrivere, che sia una poesia, un racconto o un romanzo, si “soffia la vita” nei personaggi, in ambientazioni, che possono anche essere completamente frutto della fantasia.

Ci sono autori che hanno letteralmente creato nuovi mondi, altri universi.

Scrivere diventa un modo per essere “Dio” senza possedere la Gnosi.

Ed ovviamente non sempre è un semplice meccanismo di fuga, sarebbe riduttivo pensarlo.
Spesso molto più semplicemente è una potente immaginazione che preme per prendere forma, sono mondi ed universi che diventano troppo grandi e definiti per restare confinati nello spazio di una mente.

Volendo, il filo conduttore di tutte queste spinte alla scrittura è l’avere qualcosa da dire, agli altri, sostanzialmente a se stessi.

Definizione che potremmo accettare per buona, se non per l’evidenza di tantissime persone che si ostinano a scrivere pur non avendo nulla da dire.

Rimane la domanda: perché scriviamo?

Non so cosa scrivere. Non so perché scrivere. Ma so che devo scrivere.

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Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.