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Quando lavorare toglie dignità

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Lo sfruttamento sui luoghi di lavoro

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una trasformazione radicale del lavoro. Per qualcuno è avvenuta una vera e propria disintegrazione del sistema lavorativo, per altri ne è stata garantita la flessibilità e il continuo ricircolo, per altri il mondo del lavoro è una dimensione alla quale non è ancora stato garantito l’accesso.

Ciò che però è inconfutabile a dire, è che negli ultimi decenni la diminuzione dei salari si è dimostrata una tendenza a senso unico.

La delocalizzazione sistematica, ovvero lo spostamento dell’industria dai paesi ricchi a quelli più poveri e il persistente smantellamento dei servizi, delle organizzazioni e delle leggi a tutela del lavoro e dei lavoratori, i sindacati per esempio, hanno determinato uno svilimento del mondo del lavoro all’interno di un mercato sempre più pervaso dal pensiero neoliberista e inserito dentro le dinamiche di una monca globalizzazione.

Dall’industria agricola a quella della distribuzione del cibo, dal settore tessile a quello elettronico, ingegneristico e informatico, il mercato per questi settori è scivolato irrimediabilmente nei circuiti competitivi in cui la domanda è perennemente mutevole, i margini di guadagno bassi, per cui si rende sempre più necessaria la manodopera a prezzi stracciati.

Per essere competitive, le aziende devono inevitabilmente tenere bassi gli stipendi, sfruttando il più possibile la forza lavoro, si spostano nei paesi poveri per sottopagare, oltre la manodopera ordinaria, i ruoli e gli impieghi che necessitano di alta formazione.

Per fare ciò, queste aziende devono necessariamente assumere lavoratori poco formati, poco istruiti, che, per il basso reddito, sono costretti a sopportare qualsiasi forma di sfruttamento, magari ignari delle tutele e degli strumenti a difesa dei loro diritti e distanti dalle opportunità più accessibili ad altri e alti livelli della scala sociale.

Lo svilimento del lavoro coincide anche con lo svilimento dei gruppi umani più deboli e ne diventa spessissimo anche una questione di genere. Se si assumono molte donne nell’industria tessile, nel settore agricolo, nelle catene di montaggio, sicuramente è perché le aziende si sentono autorizzate a pagare di meno queste ultime che gli uomini.

Stesso discorso vale per adolescenti sotto la dicitura scuola – lavoro, laureandi o neolaureati che vengono per lo più sfruttati sotto le autorizzate clausole di stage e tirocini formativi, per cui l’inserimento in un giusto contesto lavorativo fatto di tutele e ammortizzatori sociali viene procrastinato fino a raggiungere un’età in cui diviene praticamente impossibile l’accesso al mondo del lavoro. Esiste anche una selezione razziale dei lavoratori chiamati a determinate mansioni. I raccoglitori di pomodori nei campi dell’Italia meridionale, per esempio.

A Nardò di Puglia, durante la stagione estiva del 2015, un bracciante agricolo sudanese, Abdullah Mohammed, a quarantasette anni, morì mentre raccoglieva pomodori in un campo agricolo. Non aveva contratto di lavoro ed era costretto dall’azienda e dall’intermediario sudanese a reggere dei turni estenuanti, fatti anche di più di dodici ore al giorno per meno di venticinque euro.

Ma trovo anche troppo spettacolare parlare degli immigrati. C’è chi per mantenersi agli studi, nella propria città, e ne conosco tanti, lavora a nero per bar, pub e vinerie, durante i fine settimana, per le stesse ore, alla stessa cifra.

A tutti questi fenomeni si aggiunge anche la disgregazione delle organizzazioni sindacali e la volontaria defezione e disaffezione a questi ormai desueti organismi, considerati, dai più, inaffidabili. Il declino della partecipazione politica e sindacale, sia nei settori privati che in quelli pubblici, ha portato a una minore protezione nei luoghi di lavoro e all’impossibilità di contrattare collettivamente i salari, garantendo ai proprietari, titolari, direttori e manager, grandi margini di guadagno, di manovra sul lavoro, sulla sua organizzazione nel tempo, ma, soprattutto, sulla vita dei lavoratori.

È ormai all’ordine del giorno delle agende politiche di tutti i paesi coinvolti nel grande mercato globale, cercare di limitare i lavoratori o addirittura vietare a questi ultimi di incontrarsi e creare organizzazioni sindacali al fine di incentivare le attività commerciali e le aziende estere a investire capitali nel proprio Paese.

Quando anche ci si trovasse in una condizione contrattuale decente, le ore lavorative tiranneggiano su tutti gli altri aspetti della vita quotidiana di un essere umano. Per cui si lavora per pagare le spese, che, inevitabilmente, crescono per adempiere a tutte quelle attività tralasciate, non senza sensi di colpa, a causa del sacrosanto lavoro: la cura dei figli per esempio.

Ma, è vero che il lavoro nobilita l’uomo?

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Autore Marilena Scuotto

Marilena Scuotto nasce a Torre del Greco in provincia di Napoli il 30 luglio del 1985. Giornalista pubblicista, archeologa e scrittrice, vive dal 2004 al 2014 sui cantieri archeologici di diversi paesi: Yemen, Oman, Isole Cicladi e Italia. Nel 2009, durante gli studi universitari pisani, entra a far parte della redazione della rivista letteraria Aeolo, scrivendo contemporaneamente per giornali, uffici stampa e testate on-line. L’attivismo politico ha rappresentato per l’autore una imprescindibile costante, che lo porterà alla frattura con il mondo accademico a sei mesi dal conseguimento del titolo di dottore di ricerca. Da novembre 2015 a marzo 2016 ha lavorato presso l’agenzia di stampa Omninapoli e attualmente scrive e collabora per il quotidiano nazionale online ExPartibus.