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L’accelerazione

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Come massima disgrazia della nostra epoca, che non permette ad alcunché di pervenire a maturità, devo considerare il fatto che nell’istante prossimo si consuma quello precedente, si sprecano i giorni e si vive sempre alla giornata, senza combinare nulla.
J. W. Goethe – Lettera del novembre 1825


La storia, come si sa, non procede secondo le scadenze del calendario. Il succedersi degli anni non si misura per essa con il metro del 31 dicembre o del primo gennaio. Anche quel termine temporale, che impressiona tanto la fantasia e la sensibilità degli uomini, ha ben poco significato per essa.

Dal punto di visto storico, i secoli cominciano e finiscono in qualsiasi anno e sono ben lontani dall’avere il ragionevole e comodo costume della durata fissa di cento anni.

Viviamo nell’epoca della fretta, un ‘tempo senza tempo’ in cui tutto corre scompostamente, impedendoci non soltanto di vivere pienamente gli istanti presenti, ma anche di riflettere serenamente su quanto accade intorno a noi. La perdita di tempo è il nuovo peccato mortale della nostra teologia post-moderna.

Mangiamo più in fretta, dormiamo poco, parliamo di meno con i familiari. Consci che se la modernità si dice in molti modi, l’accelerazione spasmodica del tempo ne è uno degli aspetti più caratterizzanti. Di qui il paradosso di una filosofia della fretta, nel tentativo di far convergere la ‘pazienza del concetto’ e i ritmi elettrizzanti del mondo.

Lo sviluppo del progresso tecnologico ha generato un’alterazione non solo della percezione umana del tempo, ma anche un’obiettiva accelerazione delle trasformazioni economiche e sociali e un’obliterazione progressiva del passato.

Esso scompare senza lasciare traccia e ora la tecnologia atomica accresce il rischio che un’umanità resa infantile dalla fiducia cieca nel futuro e dalla perdita del passato vada verso la catastrofe atomica.

Figlio legittimo dell’accelerazione della storia inaugurata dalla Rivoluzione industriale e da quella francese, il fenomeno della fretta fu promosso, sul piano teorico, dalla passione illuministica per il futuro come luogo di realizzazione di progetti di emancipazione e di perfezionamento.

La nostra epoca ‘postmoderna’, che pure ha smesso di credere nell’avvenire, non ha per questo cessato di affrettarsi, dando vita ad una versione del tutto autoreferenziale della fretta: una versione nichilistica, perché svuotata dai progetti di emancipazione universale e dalle promesse di colonizzazione del futuro.

Nella cornice dell’eternizzazione dell’oggi resa possibile dalla glaciale desertificazione dell’avvenire determinata dal capitalismo globale, il motto dell’uomo contemporaneo ‘mi affretto, dunque sono’, sembra accompagnarsi ad un’assoluta mancanza di consapevolezza dei fini e delle destinazioni verso cui accelerare il processo di trascendimento del presente in una società dove il fatto più rilevante del nostro tempo, forse, è che tutto può essere comprato e venduto.

Gli antichi rapporti comunitari, fondati sulla fiducia, sulla reciprocità e sul senso dell’onore si sono dissolti per lasciare il posto al libero sviluppo degli interessi individuali, centrali in una società liquida, che ha sostituito la qualità con la quantità, i princìpi con i desideri e la trascendenza con il profitto.

Siamo già ben oltre la robotizzazione dell’industria e dei lavori più monotoni: le macchine intelligenti stanno trasformando tutti i settori dell’economia, rivelandosi più efficienti e produttive degli esseri umani.

Solo ripensando il sistema economico e lo stato sociale potremo cogliere le opportunità di un mondo in cui la tecnologia consentirà maggior prosperità, benessere e tempo libero. La posizione che abbiamo oggi nel mondo non è predeterminata dalla nascita e non è stabile nel corso della vita, ma è il frutto di una negoziazione continua.

Nella società pre-moderna, invece, la posizione era data dall’appartenenza per nascita, si pensi alle corporazioni nel Medioevo. Il mondo era organizzato gerarchicamente e la posizione data dalla nascita era al tempo stesso il progetto di vita del singolo. L’identità sociale era immutata e stabile nel tempo e dipendeva in maniera solo relativa dall’individuo.

Le persone, pur essendo formalmente libere, diventano pressati e dominati da un numero enorme di richieste sociali. Le patologie sociali funzionerebbero da inconsapevoli strategie di sopravvivenza massimamente inefficaci, fino ad avere l’effetto contrario.

Se le premesse di tutto questo discorso sono corrette, allora, tra le sfide della postmodernità rientra la ricerca di strategie deceleratorie adeguate senza scadere nell’utopismo o nell’antimodernismo più nostalgico e sterile: dal rapporto con la città agli spazi di lavoro, al porre in questione cosa è oggi il ‘tempo libero’.

La modernità, aprendo lo spazio dell’autonomia individuale, rompe questo tipo di rapporti. In un mondo in trasformazione accelerata, un cambio di scala colpisce e riconfigura le nostre esistenze provate e collettive.

Questo nuovo ambiente, ancora proteiforme, che chiamiamo il mondo globale, è un non – luogo. Potremmo affermare che il paesaggio sovra – moderno riproduce nella dimensione spaziale la crudeltà dell’esperienza temporale. La storia non finisce mai, ma la vita di ognuno è limitata.

Nei passaggi più caratteristici della modernità vi è una dimensione utopica e onirica, una promessa di unità, che non possiamo escludere che finisca per infrangersi sulle contraddizioni e sulle durezze della storia, ma che, in ogni caso, siamo certi ognuno per conto proprio, che non vedremo mai realizzarsi.

E ancora mi viene voglia di ribadire che gli eventi del mondo non siano così prevedibili: gli stessi Stati non hanno interessi eterni o orientamenti geopolitici permanenti, motivi fissi nel tempo o obiettivi sempre pronosticabili; né gli esseri umani reagiscono sempre nel modo in cui dovrebbero.

Anche perché nella teoria e nella prassi di ogni storiografia, sia politica che letteraria, la periodizzazione costituisce un elemento tanto discusso quanto necessario, affinché l’amorfa abbondanza degli eventi possa venir compresa e strutturata in prospettiva diacronica e sincronica.

La storia, che equivale ad un processo di sviluppo, viene rappresentata come una serie diacronica di epoche sincroniche, che, in fondo, sono costrutti della coscienza storica e vengono così proiettate in modo retrospettivo sulla realtà storica tramandata.

Idealmente, quindi, ogni età si compie e si conclude con una data cerniera, con una svolta per la quale vale una struttura del tipo «prima non ancora» «dopo non più».

Quello che resta è che questo periodo è caratterizzato dall’esigenza di accelerare, di abbreviare la durata dei processi decisionali, di non perdere il passo con le esigenze che mutano, di far presto prima che sia troppo tardi. C’è un senso di mancanza del tempo, una frenesia di fare più cose allo stesso momento.

La legge dell’accelerazione della storia mostra, tra le altre cose, lo sviluppo irregolare delle varie strutture sociali. Lontano da tutte le società si formano allo stesso modo e contemporaneamente passano attraverso l’uno o l’altro stadio della formazione. Nel corso della ricerca, è possibile rivelare il livello di ritardo storico di un determinato Paese in uno specifico periodo storico.

Un’accelerazione che sembra quasi promessa di vita eterna. Accelerazione tecnica, accelerazione sociale, accelerazione del tempo di vita. Un fenomeno difficilmente arrestabile, nonostante i movimenti di decelerazione si siano moltiplicati negli ultimi anni.

Accelerazione che porta ad alienazione, a sindromi depressive, burn out, senso di smarrimento, di ansia, di accidia, di malinconia e inadeguatezza dei singoli rispetto ai ritmi sociali.

L’accelerazione è diventata, insomma, una «potenza» che domina in modo totalitario la società moderna. Essa divora i nostri sogni, obiettivi, desideri e progetti di vita, stritolandoli entro gli ingranaggi del suo inarrestabile movimento.

Cosa possiamo fare per riappropriarci di momenti di esperienza umana non alienata, di buona vita conforme alle nostre aspirazioni e desideri più veri?

La risposta non può essere una e sola: dipende da noi, da ciò che costruiremo, da quello che il futuro pretenderà, dallo spirito di adattamento ma anche dall’urgenza di tornare ad una vita più ‘normale’, quel senso di serena accettazione ad un fatalismo quasi naturalistico che ci consentiva di sorridere, piangere e vedere ogni cosa con passione, forza e con un certo inchino a quanto voluto dal destino.

L’accelerazione dei tempi e la velocità crescente del cambiamento mettono in discussione il valore stesso dell’esperienza.
Pier Luigi Celli

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.