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Il Capitalismo ci salverà

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I Cretti di Burri


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Il Capitalismo ci salverà

Ho sempre pensato che la coerenza, tra tutti, fosse il valore principe, la scintilla che mette in moto tutta una serie di comportamenti e atteggiamenti di uso civico molto sani e apprezzabili per il vivere comune.

Essere fedeli a se stessi, alla propria morale, al senso dell’etica è l’unica condizione che ci consente di camminare liberi e a testa alta in una società che spersonalizza di continuo ogni singolo tentativo di giusta autodeterminazione. Eppure, continuamente, siamo messi alla prova, e indotti a fare scelte che se proprio non ci piacciono, almeno possono divenire un’opportunità di analisi e di discernimento.

In un preciso momento della storia, e cioè questo del Capitalismo globale, in cui Stato e Istituzioni sono completamente allo stremo del loro sforzo esistenziale, insiste una società gestita dal mercato e irrimediabilmente impelagata nelle trame economiche internazionali che si dimostra assolutamente incapace di identificarsi e di reagire positivamente all’urgenza di solidità.

Al mercato imperante hanno sicuramente prestato il fianco una classe politica fatta di “cazzari”, per citare alcuni giornalisti contemporanei in riferimento ad una particolare fazione politica italiana attuale, e un gravissimo scollamento sociale che ha completamente dimenticato valori come la solidarietà e il mutuo soccorso.

Rimarco nello specifico questi due principi non a caso, perché costituivano e costituiscono ancora la malta necessaria affinché una classe sociale potesse e possa ancora in qualche modo riconoscersi e ritenersi tale.

La storia dell’umanità è una curva temporale che avanza tra una crisi e l’altra, tra un vuoto politico e la sua rioccupazione, tra un abuso di potere e la rivoluzione che ne consegue. Ma cosa sta succedendo adesso? Cos’è che accade quotidianamente che proprio non riusciamo ad interpretare? Soprattutto, perché non abbiamo una benché minima visione di futuro?

L’unica vera rivoluzione che ha investito e travolto gli ultimi decenni è stata quella tecnologica. Una rivoluzione che ha cambiato completamente il modo di comunicare tra le persone, che ha ridefinito gli spazi, le distanze e la loro percezione. Una strada a senso unico percorribile solamente a velocità sovrumane con lo smacco però che ad essere coinvolte sono le attività che umane restano e che dell’umano si portano dietro tutta la lentezza e la complessità, compresi i rapporti, le relazioni e i legami sociali.

Questa umanità liquida, disgregata e disorientata è stata definita e descritta da Bauman più volte e molto bene nei suoi saggi. È un’umanità che vive in virtuale, connessa costantemente alla rete, costantemente raggiungibile, costantemente controllabile, bombardata da messaggi veicolati dai poteri vigenti, siano essi politici o economici, della quale ne è stata distrutta la capacità critica, analitica e soprattutto di aggregazione.

Non è la povertà ad annientare l’essere umano, come dal 2007 ci viene continuamente ripetuto al sopraggiungere della crisi economica. L’Occidente ha vissuto fasi storiche molto meno laute e comode di quella attuale, il Capitalismo riesce a far arrivare in Europa e in Occidente la maggior parte della ricchezza globale grazie ad una rinomata e iniqua distribuzione della stessa.

Mia nonna era la prima di dieci figli negli anni Venti del Novecento, e ritornano gli echi dei suoi racconti fatti di stracci che vestivano tre o anche quattro generazioni di bambini, di pacchi di sale e zucchero divisi tra tutti gli abitanti dello stesso edificio, di donne che allattavano figli di estranee per sopperire alla mancanza di latte materno a causa della denutrizione. Ma la povertà non le ammazzava, non le deprimeva. Le univa. Non erano sole. Un uomo, una donna, un bambino sono veramente poveri e in pericolo soltanto se sono da soli, fuori da qualsiasi gruppo o da qualsiasi comunità.

Ciò che succede adesso è l’isolamento mediatico e reale. Il sentimento prevalente è la vergogna. Nelle vetrine dei social network è severamente vietato mostrare le proprie debolezze economiche, emotive e fisiche. Si vive in rete per non vivere realmente le frustrazioni di un rifiuto, la difficoltà della costruzione di un rapporto, che sia di amicizia o di amore, ci si rifugia dietro lo schermo per proteggersi dalla vita, quella vera, densa, difficile, ma miracolosamente affascinante. La solitudine è il sentimento principe, indotto anche da un sistema che ne ha fatto l’ingranaggio fondamentale.

Con la disgregazione sociale è divenuta legittima e semplice la disgregazione dell’apparato statale; l’annullamento degli ammortizzatori sociali, del sindacalismo, delle tutele, dei diritti acquisiti a furor di popolo sono la conseguenza di una frantumazione strutturale che è figlia di quella sociale.

È l’epoca del self-made man, la maniera all’anglosassone di definire e contemporaneamente mascherare la tragedia di individui tremendamente soli, che non hanno appigli se non se stessi. E sulla scia dello sfruttamento del precariato, dell’insicurezza e della solitudine si fonda e sguazza l’attuale sistema economico internazionale, che però, non ha calcolato proprio tutto.

Di chi è la colpa? C’è qualcuno, qualche soggetto, un gruppo a cui è possibile addossare qualche responsabilità? Io dico di sì.

La colpa è di quella parte dirigenziale, sociale e politica che ha permesso la mattanza dei diritti e della cultura, della conoscenza e della buona informazione nei luoghi pubblici e istituzionali, che sapeva e che sa, che si muove nelle stanze dei bottoni senza alzare un dito contro lo smantellamento della cosa pubblica e che consiglia alle nuove generazioni, con aria di sufficienza e rassegnata, di andare all’estero, come se l’esotismo del luogo restituisse l’Eldorado.

Responsabili sono i docenti, quei docenti universitari che dopo il ’68, arrivati alle cattedre, hanno dimenticato come si fa la rivoluzione. Hanno contrattato a suon di assegni pubblici e dottorati di ricerca posizioni di potere e prestigio, trattando come privata l’Università. Hanno lasciato che gli atenei diventassero fabbriche di produzione ad accumulo, un sistema di crediti e debiti manco fossero banche.

Responsabile è quella parte politica che ha usato e sperperato il patrimonio pubblico e che ancora non ha restituito. Responsabile è quella parte sociale e politica che non si è opposta. Ma tacitamente ha lasciato che tutto accadesse, perché tanto, in gioco, era il lavoro o la vita di un altro.

Qual è la prospettiva dopo la devastazione del Pubblico? Esiste una strada? È prevedibile un futuro? Possiamo trovare una soluzione? In che direzione stiamo andando?

La storia mi ha insegnato banalmente che non si torna indietro. Le soluzioni sono sempre figlie del loro tempo, così come ogni generazione porta in seno la capacità di sopravvivere ai drammi contestuali. Sono convinta che proprio dal sistema capitalistico arriverà un suggerimento che si rifletterà anche sull’organizzazione sociale, molto probabilmente proprio il sistema capitalistico dovrà accollarsi il crollo della sovranità statale, sobbarcarsi la carcassa e riattualizzare delle forme di welfare necessarie alla tranquillità del sistema economico stesso.

Il capitalismo dovrà necessariamente rivedere forme di sfruttamento relative al precariato, perché i giovani in qualche modo stanno imparando a sottrarsi all’annullamento, dovrà necessariamente ripensare lo sfruttamento del lavoro in paesi molto poveri, perché le persone cominciano a spostarsi massivamente. Riequilibrare lo sfruttamento delle risorse naturali sarà l’imperativo, pena il collasso, per citare Diamond.

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Autore Marilena Scuotto

Marilena Scuotto nasce a Torre del Greco in provincia di Napoli il 30 luglio del 1985. Giornalista pubblicista, archeologa e scrittrice, vive dal 2004 al 2014 sui cantieri archeologici di diversi paesi: Yemen, Oman, Isole Cicladi e Italia. Nel 2009, durante gli studi universitari pisani, entra a far parte della redazione della rivista letteraria Aeolo, scrivendo contemporaneamente per giornali, uffici stampa e testate on-line. L’attivismo politico ha rappresentato per l’autore una imprescindibile costante, che lo porterà alla frattura con il mondo accademico a sei mesi dal conseguimento del titolo di dottore di ricerca. Da novembre 2015 a marzo 2016 ha lavorato presso l’agenzia di stampa Omninapoli e attualmente scrive e collabora per il quotidiano nazionale online ExPartibus.