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A Pieni Poteri

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Viviamo in una società profondamente dipendente dalla scienza e dalla tecnologia e in cui nessuno sa nulla in merito a tali questioni. Si tratta di una formula sicura per il disastro.
Carl Sagan

Era inevitabile che il 2020 sconvolgesse il mondo e segnasse una seria linea di confine tra un prima e un dopo ancora non completamente chiuso.

In modo particolare, la pandemia ha scompaginato i mercati del lavoro a livello globale, con conseguenze spesso gravi e che, ancora oggi, si improvvisano.

Ci sono, infatti, milioni di persone che sono state messe in aspettativa o hanno perso l’impiego e altre si sono celermente adeguate a lavorare da casa mentre gli uffici venivano banditi dalla quotidianità.

Chiaro che vi sia stata una parte di loro che ha mantenuto il proprio status perché ritenuto essenziale per il continuo della produzione e della distribuzione della merce, come i camionisti e gli addetti ai negozi e, soprattutto, per affrontare al meglio l’emergenza sanitaria, come i medici e gli infermieri.

Ciò nonostante hanno imparato ad adeguarsi a nuovi protocolli per ridurre la diffusione del nuovo Coronavirus. Secondo alcuni scenari, nel 2022 ci saranno ancora 52 milioni di posti di lavoro in meno rispetto ai livelli pre-Covid, ultimo trimestre del 2019, in tutto il mondo e nel 2023 ancora 27 milioni di posti in meno.

Il conteggio dei posti bruciati dall’emergenza sanitaria lo fa l’ILO l’Agenzia del lavoro delle Nazioni Unite, costretta a rivedere, in peggio, le stime per l’anno in corso: le precedenti si fermavano a 26 milioni di posti in meno.

Per la ripresa, si dovrà dunque aspettare. Secondo alcuni studi ci vorrà più tempo per recuperare i livelli pre-pandemia e la disoccupazione rimarrà più elevata almeno sino alla metà del 2023, attestandosi a 207 milioni rispetto ai 186 milioni del 2019.

E cosa avverrà in futuro?

La McKinsey ha pubblicato un rapporto sul futuro del lavoro dopo il Covid per valutare l’impatto duraturo della pandemia sulla domanda di lavoro, il mix di occupazioni e le competenze della forza lavoro richieste in otto Paesi con diversi modelli economici e di mercato del lavoro: Cina, Francia, Germania, India, Giappone, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Insieme, rappresentano quasi la metà della popolazione globale e il 62% del PIL.

Quello che emerge è un quadro di difficile interpretazione e di luce fievole. Infatti, dopo la pandemia potrebbe emergere un insieme di occupazioni nettamente differente nelle otto economie.

Rispetto alle stime pre-Covid, si attende che il maggiore impatto negativo ricadrà sugli addetti ai servizi alimentari e nel customer service, così come sui ruoli di supporto meno qualificati negli uffici.

I posti nei magazzini e nei trasporti potrebbero aumentare, come risultato della crescita dell’e-commerce e dell’economia delle consegne, ma è incerto che questi incrementi compensino l’interruzione di molti impieghi a basso stipendio.

La domanda di salariati nel settore sanitario e nelle occupazioni STEM – Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica – potrebbe crescere più di prima della crisi sanitaria, ampliando una maggiore attenzione alla salute con l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei redditi, nonché il crescente bisogno di individui che possano creare, distribuire e mantenere le nuove tecnologie.

Questo ci porta ad un’ulteriore necessità emergente: la prima urgenza del lavoratore, per essere competitivo, sarà quella di riconvertire le proprie capacità per potersi inserire nei nuovi modelli organizzativi che le aziende si daranno.

In questo senso c’è da segnalare che tra i principali cambiamenti intercorsi nel lavoro degli italiani, ben il 42% ha sottolineato il miglioramento delle proprie competenze digitali e tecnologiche durante l’anno, mentre, a seguire, circa un terzo, 33%, ha visto aumentare il proprio orientamento verso la formazione e l’aggiornamento.

Anche perché non sono poche le aziende hanno attivato l’automazione e l’IA in magazzini, negozi di alimentari, call center e impianti di produzione per ridurre la densità del posto di lavoro e far fronte ai picchi della domanda.

Bisogna stare al passo ed evitare di essere la seconda scelta rispetto ad un automatismo, indipendentemente dalle logiche di mercato e dagli sviluppi dei piani di azione delle aziende.

Va da sé che la caratteristica comune è la loro connessione con le aree di lavoro in cui è più forte la vicinanza fisica e ciò rivela che quelle con alti livelli di interazione umana, probabilmente, comprenderanno la maggiore accelerazione nell’adozione dell’automazione e dell’IA.

Se guardiamo in casa nostra e prendiamo ad esempio le piattaforme digitali, con la Gig economy notiamo che si mantiene circa mezzo milione di lavoratori e, per poco più di uno su due, non ci sono alternative: quasi per l’81% è una fonte di sostegno essenziale.

Questo perché le piattaforme digitali reclutano sempre più forme di lavoro severamente ispezionate, sia nei tempi sia nei modi, pagate per lo più a cottimo e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita.

In Italia, nel periodo 2020/2021, i lavoratori delle piattaforme digitali sono oltre 570mila, l’1,3% della popolazione di 18 – 74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite Internet.

È un mondo immenso, nuovo e, quindi, anche sommerso; da scoprire ed identificare per fornire una sorta di protezione a chi non ha i sostegni per farlo e per accelerare il processo di inserimento nella realtà sociale e lavorativa.

E, come molte attività diffuse ma non ancora amplificate dall’effetto mass-mediologico, il lavoro attraverso piattaforma vige di ridotte condizioni di autonomia e irregolarità, dove il caporalato può padroneggiare senza grossi impedimenti.

Da uno studio si è evinto che quasi il 30% di questi non è libero o quanto meno autonomo nella gestione diretta dell’account utile ad accedere alla piattaforma e c’è poco più della metà che viene pagato da un ulteriore soggetto esterno.

Dietro a tutto ciò c’è il potere dell’algoritmo: perché oggi, a decidere nella nostra vita di tutti i giorni, ci sono soprattutto loro, di proprietà pubblica, dei governi e del loro apparato burocratico. Insomma, siamo stretti in una morsa fra poteri privati e pubblici.

Questa vigorosa dipendenza è frutto di una scelta ben precisa: abbiamo infatti deciso di consegnarci alle macchine per aumentare in tranquillità, in agio e in salute. Però, così facendo, ci siamo dati non solo alla tecnologia in sé ma, soprattutto, a chi opera dietro questa tecnologia.

In questo senso, dovrebbe essere più giusto parlare di algocrazia come riscontro attraverso la pervasività del digitale, piuttosto che di una vera e propria dittatura degli algoritmi.

Bisognerebbe appellarsi ad una maggiore trasparenza e responsabilità delle piattaforme digitali, ma anche agli stati che le subiscono o le spremono e intendo responsabilità in tutti i sensi del termine: responsability, accountability e liability. Perché i sistemi computazionali non sono mai neutri o generati in astratto, ma dispositivi progettati da esseri umani per decifrare i loro problemi concreti, nel modo più efficiente ed efficace possibile.

Del resto, le regole spesso sono essenziali per eludere esercizi arbitrari e abusi di potere in campi completamente nuovi non normati fino a questo momento. Ecco che ci troviamo di fronte a lavoratori che hanno come capo una app: a pieno potere di queste vengono legati.

Basti pensare che il sistema più esteso e riconosciuto per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine, seguito dal giudizio dei clienti.

Una valutazione negativa o una mancata disponibilità nel compimento degli incarichi collima in un aggravamento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione nelle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso dei compiti, fino ad arrivare al licenziamento. Quest’oggettiva vulnerabilità del sistema non può essere disinstallata: sta qui la differenza tra la vita reale e una chiusa in un download.

Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo.
Adriano Olivetti 

 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.