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Mostar – Bosnia Erzegovina

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Mostar


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11 agosto 2014
Avevo 11 anni e per la prima volta vidi esplodere una guerra. Le immagini che trasmetteva la televisione erano, e lo sono ancora, vive. Ancora ricordo e sento.

Ne avevo 13 quando il ponte di Mostar crollò sotto le bombe. Era il 1993. Contemporaneamente esistevano un prima e un dopo. Il dopo fu il ricordo di un luogo lontano, mai visto. Il dopo furono i volti di persone mai conosciute.

E tutto accadeva davanti a me, davanti a milioni di spettatori che dalle proprie case indifferenti, impotenti, distratti guardavano quelle immagini come un film.

Da qualche parte una mamma chiamava i figli per la cena. Da un’altra qualcuno tornava da lavoro lamentandosi della propria giornata. Altri ancora si svegliavano dopo una notte passata a divertirsi. E tutto questo mentre le immagini scorrevano.

Bomba dopo bomba, quel ponte venne giù. Il ponte. Simbolo di unione e condivisione.
Del passaggio. Simbolo della interazione tra popoli. Quel ponte non c’era più. Non c’era più comunicazione, non c’era più interazione. Non c’era più il mezzo di contatto tra le culture. Quelle mani che si stringevano si erano sciolte.

Arrivammo a Mostar attraverso le montagne che fanno da confine tra l’Erzegovina e la Croazia. Era da poco iniziato il pomeriggio. Entrati in Erzegovina si nota subito la differenza con la Croazia. Sono evidenti lo stato di difficoltà in cui versa questo paese che non è ancora riuscito a rimarginare le ferite della guerra degli anni ’90.

La strada passa per paesaggi dimenticati. Distese di boschi sui fianchi delle montagne si alternano a vigneti. Sparse le case, chiuse e silenziose. Il mio stato d’animo era un connubio di ricordi visti in televisione e aspettative per ciò che sarebbe venuto.
Giravo continuamente lo sguardo per poter dire “ecco, vedo il Ponte”.
Non arrivava.

Avanzammo in macchina. Un paese. Poi di nuovo la campagna. Un altro paese. Un altro ancora deserto. La strada mi faceva un po’ paura: girava intorno alle colline con salite e discese ripide, stretta e a tratti senza guardrail.

Il cartello Mostar si presentò davanti a noi. L’indicazione era per il centro. Il Ponte ancora non si era mostrato.

Entrammo nella città nuova. L’attraversammo. Poi la città austriaca costruita tra l’800 e il ‘900. Parcheggiammo. Ci incamminammo seguendo le vie antiche del centro storico. Eravamo entrati nella città medievale. In quell’insieme perfetto di cultura ottomana, europea e in parte mediterranea. Tanti i turisti, i viaggiatori, i curiosi. Tanti i venditori, i religiosi, i sognatori.

Il Ponte. Davanti a noi con i suoi blocchi di pietra rimessi al loro posto.

Dei ragazzi si tuffavano da lì nella Neretva in cambio di qualche soldo. Mi guardavo intorno e tutto sembrava irreale come se la guerra non fosse mai esistita. Come se fosse stata tutta una finzione dei media e dei politici.

Ma le facciate dei palazzi butterate dai proiettili, i muri senza tetto delle case, gli edifici abbattuti dai bombardamenti ancora sono lì nella Mostar appena fuori il centro storico.

Allora non è finzione. Non è il non voler ricordare, ma è il voler ricostruire, il voltare pagina e usarne una bianca per riscrivere una storia nuova.

Attraversammo la Porta sul Ponte. Lo attraversammo lentamente. Ci fermammo e guardammo il fiume che scorreva sotto. Guardammo lontano lungo il suo corso.

Strana la sensazione che si ha. Una linea d’acqua che si estende senza fine, con ponti evanescenti e case dai contorni non definiti. I boschi e le montagne svaniscono confondendosi con il cielo. Il Ponte diventa un Nodo, il braccio di una croce che forma con la Neretva.

Entrammo nella Città-al-di-là-del-Ponte.
L’intrico del bazar, negozi, bar, la moschea principale. Sembrava il Gran Bazar di Istanbul solo più piccolo e all’aperto. La cultura ottomana è fortemente presente, dando il calore a questa parte di anima dei Balcani. La maggior parte della popolazione è islamica e si convive in pace.

Entrammo nella moschea Koski Mehmed Pasa. Costruita nel 1617 ci accolse nel suo silenzio, nel suo giardino. Facce rugose si tengono a bastoni nodosi, seduti sotto alcuni alberi. Il legno di quei bastoni invecchia con i loro custodi. Si incurva, si annoda, si scurisce come la pelle delle mani che sostengono. Un mondo che non capiremo mai fino infondo.

Gli interni nudi delle moschee rimarranno per noi segreti. Un invito forse alla semplicità, un invito a cancellare le futilità della nostra vita. Il sussurro che ci accompagna alla riflessione, alla meditazione profonda, alla ricerca nei nostri angoli nascosti. Il vecchio bazar è ancora lì e torna a far compagnia ai nostri passi. Molti vendono souvenir di guerra, alcuni realizzati con parti di proiettili e armi.

Il ricordo di quel 9 novembre 1993 quando, dopo due giorni di ininterrotti bombardamenti dell’artiglieria croato-bosniaca, alle 10:15 il Ponte crollò.
Vennero giù i 456 blocchi di pietra che per 500 anni ne erano stati l’anima.

Il comandante croato che ordinò il bombardamento era Slobodan Praljak, che aveva il sogno di diventare regista teatrale! Nel 2004, insieme ad altri cinque comandanti lì a Mostar, fu condannato dal tribunale internazionale dell’Aja per crimini di guerra.

Avvertii il senso della rinascita. Questa città rappresenta il nostro futuro. È l’emblema di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere.

Il caldo si fece sentire. Ci fermammo al tavolino di un bar. Guardammo il mondo che passava, che viveva davanti a noi e che in quel momento ci chiamava a farne parte.

Mostar è un gioiello incastonato tra queste montagne, sul fiume Neretva che da sempre scorre ai suoi piedi. Che da sempre l’ha vista soccombere e rinascere.

Andammo via. Sulle sponde del fiume osservammo il Ponte e la città dal basso. I brividi percorsero il nostro corpo. Risalimmo. Entrammo nella torre del Ponte dove c’era una mostra fotografica di Wade Goddard, il neozelandese che per primo fotografò la guerra in ex Jugoslavia. Immagini.

Su di una pietra, con sopra i resti di proiettili e bombe saldati tra loro, posata alla destra della porta sul Ponte, c’era una scritta “Don’t forget ’93”. Su di un’altra solo “Don’t forget”.
No, non si può. Non ci è concesso dimenticare!

Ritornammo alla città nuova. Al suo viso butterato. Alla Bosnia Herzegovina ancora in procinto di alzarsi.

Lasci una parte di te in questa Mostar, come in ogni luogo che visiti, è vero, ma qui è diverso…

Mostar

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!