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Il politico solo

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“Non mi occupo di politica”, è come dire “non mi occupo della vita”.
 Jules Renard 

Il XXI secolo è quello della solitudine.

È un male sottile che si è insinuato dentro di noi e ha permeato ogni aspetto della nostra società̀. È l’esclusione strutturale creata dal sistema capitalistico, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici.

È l’isolamento provato dalle persone che si sentono trascurate e tradite dai propri rappresentanti e dalle istituzioni, al punto da lasciarsi sedurre dal richiamo del populismo e degli estremismi politici.

È il mondo parallelo e incontrollato dei social network, dove l’io si occulta dietro una maschera.

È l’emarginazione sul posto di lavoro, dove il lavoratore si percepisce come un ingranaggio insignificante.

È il distacco speciale delle metropoli, dove possiamo ordinare centinaia di menu in consegna a domicilio ma non sappiamo il nome del nostro vicino di casa.

È il racconto dolente della condizione in cui ciascuno di noi è venuto a trovarsi e, insieme, una chiamata alle armi contro le distanze siderali che si infiltrano nelle nostre vite, infettando, come un virus, tanto la salute dei nostri corpi e delle nostre menti quanto le strutture stesse della società̀.

È una sfida a trasformare quest’economia disumanizzante in un sistema più̀ sostenibile attraverso interventi mirati dall’alto e dal basso, come maggiori investimenti nel welfare, ricostruzione delle comunità̀ locali, banche del tempo e condomini solidali.

Si pensi, ad esempio, alla crescente costruzione di comunità auto-isolate in cerca di identità omogenee; allo spopolamento ai margini dei centri urbani; a come nuove forme di povertà anche relazionale e l’impersonalità di molti contatti quotidiani possano influire sulle varie articolazioni dell’attivismo e della militanza partitici.

È un invito a riscoprire e cementare i valori della collaborazione e dell’altruismo: la celebrazione del singolo non come atomo isolato, ma come parte integrante di una comunità̀.

Nell’epoca della disintermediazione e della dichiarata fine dei grandi movimenti di massa, sembra apparire sulla scena politica, sociale e mediatica lo “spettro” della solitudine.

Il fenomeno, tutt’altro che inedito, pare oggi declinarsi in forme tanto nuove quanto contraddittorie.

Non limitata alla sola Europa, come lo spirito di marxiana memoria, la solitudine sembra oggi assumere una dimensione pervasiva e, paradossalmente, collettiva, diventando una sorta di fil rouge tra istanze di partecipazione politica disattese, torri d’avorio sempre più alte e strategie di mobilitazione isolate. In un gioco di equilibrio e di emozioni che può determinare ogni nostra azione e/o attività.

La struttura sociale delle emozioni non è qualcosa che si trova all’esterno dal soggetto e da cui esso è influenzato, ma un delicato intrico di disposizioni, pre-valutazioni e sentimenti soggettivi, che si combinano con più ampie disposizioni collettive in maniere anche inaspettate.

Infatti, la solitudine nella collettività, la politica, ha paradossalmente bisogno di un altro che interagisca con questa singolarità o che la osservi in terza persona.

La solitudine, così come la concepiamo a partire da queste riflessioni è, soprattutto un terreno estremamente soggettivo e individualizzato nella pratica della quotidianità e, in quanto tale, atto ad essere studiato in una serie di declinazioni empiriche differenti a loro volta influenzate dalle specifiche disposizioni e posizioni degli attori sociali, ma che, allo stesso tempo, ha un certo grado di pervasività rispetto all’esperienza collettiva, una capacità di permeare. Distinguendo isolamento dalla solitudine.

La prima fa riferimento a quella che qui abbiamo definito come solitudine politica, ovvero alla situazione della rottura dei legami pubblici fra soggetti che, in tal modo, si trovano ad essere investiti da una sensazione di impotenza, di incapacità di agire collettivamente.

L’estraneazione, traducendo l’isolamento all’interno della sfera privata, costituisce, invece, l’essenza del totalitarismo. Essa racchiude l’intera esistenza del soggetto: è la sensazione di abbandono che sperimenta l’individuo che non ha compagnia, che è privo di relazioni significative.

La solitudine, di converso, si presenta come attitudine aperta alla (auto)riflessività di chi si separa dalla collettività per poi rientrare. Questa separazione è qui da intendere non in senso politico, ma antropologico, come distaccamento temporaneo dalla comunità senza che questo corrisponda al rifiutarla in generale e tout court. Infatti, può diventare il centro di un’esperienza liberatoria.

Qualcuno ha osservato come l’uomo nella folla sperimenti il paradosso di vivere a fianco di tutti gli altri, unito e vicino a questi, ma senza che si produca un reciproco vedersi.

La solitudine, del resto, può essere compresa, contemporaneamente, come disposizione individuale, legata, a volte, ad una dolorosa sensazione di isolamento e di mancanza di appartenenze o identità coerenti e in grado di mediare un senso del mondo, e al contempo, come un fatto sociale costruito collettivamente, attraverso la sedimentazione storica di processi di individualizzazione.

La politica non è solo amministrazione dell’esistente. È dare agli uomini e alle donne un orizzonte comune di significato, offrendo una chiave di trasformazione. La politica, quella vera, è quindi un grande antidoto contro la solitudine.

Senza di essa ci sentiamo persi, in preda a forze estranee, alienate, che si pongono di fronte a noi come delle realtà solide, rigide, gelide e tremende.

In questi tempi la politica ha abdicato al suo ruolo, rifluendo in un’omologazione nauseante, motivata da un’emergenza sanitaria che avrebbe necessitato di una risposta ben più coraggiosa su un piano di medicina territoriale, di ristori alle imprese e ai lavoratori, di organizzazione delle cure.

La libertà di pensiero è una qualità che va spesa, donata, consumata nell’organizzazione politica. È un dono, ma, per essere colto nella sua essenza, deve essere a sua volta donato.

Abbiamo bisogno di un’aggregazione politica, di spenderci, tutti e in base alla propria vocazione, per creare un’area politica alternativa.

Mi verrebbe da dire che la solitudine si supera solo cercando di dare sollievo a quella altrui. Allora, uscire dalla solitudine diventa un destino collettivo, un compito storico, che ci appella e ci reclama, un esodo politico, un percorso di liberazione collettivo, una fuga dalla schiavitù. Questo significa vivere l’esistenza politicamente, diventare un polo aggregativo per altri.

Bisognerebbe creare affiliazioni, un processo su cui dovremmo lavorare insieme nei prossimi mesi ed anni, che richiederà un’elaborazione culturale straordinaria, un lavoro nelle singole discipline, dall’economia all’ecologia passando per la geopolitica, ma anche un lavoro di formazione personale.

Abbiamo bisogno di incontrarci, nella carne, nella fisicità delle nostre speranze. Abbiamo bisogno di non darla vinta al sistema della disperazione, che si nutre anche dei nostri narcisismi, delle nostre infantilità, delle nostre misere paure.

C’è fame di politica. Una fame che deve sconfiggere una solitudine che sta diventando isolamento. Per tutti da tutto.

I pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango.
George Orwell 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.