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Diritti degli animali e nuove categorie del dissenso

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Diritti degli animali


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Nel maggio scorso, presso la contea di Briant in Ontario, Canada, un gruppo di attivisti irrompe nella notte in una azienda che tiene prigionieri numerosi visoni per farne pelliccia, libera le gabbie e li sottrae al loro destino crudele. Pur non recentissima, la vicenda pare sottolineare una pratica destinata a diffondersi. Non mancano precedenti anche da noi.

Nel dicembre del 2015 a Canossa, con un blitz all’allevamento di lepri Casa Boschi, l’Animal Liberation Front ha ad esempio permesso la fuga di circa mille lepri utilizzate anche per l’addestramento dei cani da caccia; e gli esempi potrebbero continuare.

Argomentando da una prospettiva privatistica ci vuol poco ad individuare gli estremi del reato in vicende come questa. Il senso del proprium, prima ancora del relativo diritto di proprietà, rimane, pur rimodellato in forme sempre più complesse, un elemento dominante del vivere associato occidentale. È peraltro vero che in una comunità ideale le categorie di ciò che è lecito e di ciò che è giusto sono strettamente interrelate, e la loro inosservanza è percepita in maniera diffusa come ingiustizia, prima ancora che come reato.
Ciò porta al quesito cruciale: quanto è diffusa oggi l’idea che la sofferenza degli animali rientri tra le ingiustizie da sottoporre ad un profondo revirement sociale?

Nello specifico, liberare animali destinati a patire crudeltà per ragioni meramente economiche è un reato, o è “giusto” secondo principi che, capovolgendo gli stessi assetti proprietari, intendono dare priorità alle istanze radicali della vita e della dignità degli esseri viventi? Esiste un vero e proprio diritto ad azioni dissenzienti di tal fatta? Ed, in caso positivo, quale sarebbe il limite legittimo di tali azioni? Sarebbe da considerare in modo diverso, poniamo, l’azione sovversiva di chi libera animali utilizzati per scopi voluttuari, ad esempio per farne pelliccia, o per farne cavie per prodotti cosmetici, o ludici, animali utilizzati nei circhi e negli acquari, rispetto alla liberazione di cavie destinate al macello? In che modo andrebbe valutata un’azione di questo tipo per gli animali destinati alla ricerca? Proprio in quest’ultimo caso il cortocircuito etico sembra essere fatale, per la difficoltà di individuare una posizione di tipo cognitivista, legata cioè a valori conoscibili su base esclusivamente razionale e non in base ad una scelta personale, tra la vita degli animali e la sperimentazione biologica di base.

Non mancano, sebbene oggetto di critiche, le normative in materia. Quella italiana relativa alla sperimentazione sugli animali, ad esempio, è addirittura più restrittiva di quella in ambito UE. L’attuale quadro normativo pare tuttavia rispondere con sempre minore efficacia una domanda di “umanità” nel trattamento degli animali che non ha precedenti, e che vede larghe porzioni sociali sensibilizzate in maniera inedita, complice anche il trasversale passaparola in ambito social, con la moltiplicazione di associazioni e petizioni al riguardo.

Né mancano casi che coinvolgono i rapporti tra stati sovrani e normative sovranazionali.
Nel luglio del 2015 ha destato scalpore l’arresto di cinque membri dell’equipaggio di Sea Shepherd, organizzazione dedita alla salvaguardia della fauna ittica e degli ambienti marini, nelle isole Far Oer, mentre cercavano di opporsi alla stagionale mattanza dei globicefali nota come grindadráp. Il massacro dei cetacei è proibito dall’Unione Europea, inclusa la Danimarca, secondo quanto prevede l’Allegato II della Convenzione relativa alla Conservazione della Vita Selvatica e dell’Ambiente Naturale in Europa, Convenzione di Berna, ratificato, tra gli altri, dalla Danimarca, di cui le Far Oer fanno parte. Gli abitanti delle isole, a loro volta, rispondono con la necessità di difendere una tradizione secolare, consapevoli tra l’altro di una forte autonomia amministrativa rispetto alla madrepatria.

Si assiste in questo caso ad una curiosa biforcazione del diritto naturale: una certa cultura dei diritti alla vita e alla dignità, di stampo continentale, sempre più estesa al mondo animale, si scontra con la cultura delle tradizioni storicamente sedimentate, custode a sua volta – in ambito principalmente anglosassone – dei diritti fondamentali. Si assiste inoltre a un capovolgimento paradossale: l’operato dei militanti di Sea Shepherd, come quello di altre organizzazioni, a primo impatto percepibile come azione dissenziente e ribelle, è in realtà legittimato da un quadro normativo chiaro e formalmente azionabile, ma sostanzialmente disatteso da parte del potere costituito.

Certo è che in questo scontro tra nuove sensibilità e antiche tradizioni, sociali, religiose, culinarie, la trame del dissenso acquisiscono pieghe interessanti, da seguire con cura.
Se è vero, come diceva Gandhi, che la civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali, un possibile nuovo modo di affrontare questo tema pare stagliarsi, con sempre maggior forza, all’orizzonte.

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Autore Giuseppe Maria Ambrosio

Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.