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Stato etico e stato di diritto: antica liaison tra potere e morale

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Immanuel Kant


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Ha destato clamore il concetto di “spese immorali” indicato qualche giorno fa come limite all’utilizzazione dell’istituendo reddito di cittadinanza.

Dopo qualche giorno di perplessità, e non senza qualche ironia, ci ha pensato lo stesso Vicepremier Luigi Di Maio a precisare, in un breve video apparso sul blog delle stelle, quanto affermato:

non mi riferivo a nient’altro se non al gioco d’azzardo, un fenomeno che stiamo debellando. Non voglio togliere nessun altro diritto alle persone di poter spendere i soldi, e tanto meno mi riferivo ad altro.

Eppure qualche dubbio rimane, accompagnato da qualche riflessione.
Quando il termine ‘morale’ fa capolino nelle espressioni del potere, non si può fare a meno di pensare – e qualcuno lo ha fatto – a quello ‘Stato etico’ che in epoca moderna ha avuto estimatori illustri, ma anche esiti nefasti.

L’Europa ha strizzato l’occhio, in questi ultimi tre secoli, a radicalismi illuminati dal fuoco della ragione, ad assolutismi di marca hobbesiana, a forme etiche di Stato totalizzanti, e talora totalitarie, in cui tanta filosofia della storia ha scorto l’ombra di Hegel, o la sua sciagurata interpretazione.

La forma di Stato che finisce per imporsi in Europa, non senza difficoltà, a partire dalla fine dell’Ottocento, è lo stato liberale, di estrazione borghese, matrice sostanzialmente kantiana. Si tratta, in sintesi, del cosiddetto Stato di diritto: un modello del vivere associato che predilige, come fondante, il valore del diritto rispetto a quelli della religione, dell’etica, del potere assoluto, dell’utilità economica, della felicità. Ed anche della morale.

Il problema, poi, si complica se a parlare di moralità è il Governo, ossia l’espressione di un potere che esegue – perlomeno negli auspici dello Stato costituzionale di diritto – le direttive di un altro potere – quello legislativo del Parlamento – cui spetta definire giuridicamente le scelte fondamentali.

Torniamo a noi. Slot machine e gratta e vinci immorali, dunque. Non possiamo che essere personalmente, ossia, si badi, come individui con una propria, privata morale, e non come “cittadini” di uno Stato di diritto, in accordo.

Cosa capiterebbe tuttavia se la linea fosse posta giusto un po’ più in là, e tra un anno il paniere dell’immoralità annoverasse, ad esempio, sigarette ed altri svaghi ritenuti nocivi? E se l’anno successivo l’immoralità decidesse di interessarsi alle spese dedicate ai gadget sessuali? O magari alla contraccezione, o alle analisi private per l’interruzione della gravidanza, temi che, considerate le affermazioni di alcuni esponenti della maggioranza, potrebbero tornare prepotentemente in auge?

È chiaro che si tratta di ipotesi. Come è chiaro che l’equivoco poteva, in realtà, essere strategicamente aggirato. Potevano, ad esempio, indicarsi tassativamente le spese vietate senza bollarle moralmente: forse molte polemiche non sarebbero sorte. Ma parlare di immoralità, peraltro nell’ambito delle condizioni di fruibilità di una somma economica, non pare una grande trovata: al netto di ogni simpatia o antipatia politica, è il caso che i poteri di uno Stato di diritto rimangano, nel loro esercizio, sempre tenacemente amorali. Ogni atto contrario in tal senso suonerà sempre, all’opposto, decisamente immorale.

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Autore Giuseppe Maria Ambrosio

Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.