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‘Moonrise Kingdom’, meraviglia stilistica di Anderson

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L’inconfondibile stile di Wes Anderson

Wes Anderson è un piccolo grande genio cinematografico che, nel terzo millennio, si è ritagliato uno stile riconoscibile e assolutamente personale che può portare lo spettatore ad amarlo o ad odiarlo. 

Le sue opere non sono fatte di racconti estremi o disturbanti che potrebbero tener lontano qualcuno, è la scelta di non adeguarsi alla visione e alla tempistica della narrativa moderna che può renderlo ostile ad una parte di pubblico.

Anderson detta i propri tempi, disegnando un mondo surreale che abbandona l’avvicendarsi scontato degli eventi circondando di un’aureola affascinante e divertente ognuno dei personaggi che va a raccontare, maschere create da uno scultore di esistenze paradossali innalzate a protagonisti di storie fuori dall’ordinario.

Una fiaba sull’amore e la “diversità”

Il settimo film di Wes Anderson è stato Moonrise Kingdom, una meravigliosa parabola sulla crescita e sull’amore ma soprattutto una fiaba sulla “diversità”.

La storia si svolge nell’estate del 1965 su di un’isola a largo del New England: due dodicenni si conoscono ad una recita in chiesa e da quel momento comincia una fitta corrispondenza in cui Suzy e Sam si raccontano le loro vite e i desideri fino a stringere un patto segreto per fuggire insieme nella foresta di New Penzance, l’isola su cui vivono.

E così danno vita alla loro fuga d’amore, appena un anno dopo il primo incontro.

La comunità dell’isola è in subbuglio per la notizia e tra le forze dell’ordine locali, i genitori della ragazza e il capo scout del campo da cui è scappato il ragazzino, si mette in moto la macchina delle ricerche, che coinvolge anche i servizi sociali quando, in maniera piuttosto strana, si viene a sapere che Sam è orfano e i suoi genitori adottivi non hanno intenzione di riprenderlo in casa perché “disturbato”; tutto questo mentre un uragano sta per abbattersi sulle coste della piccola isola.

Senza la minima idea dei personaggi che interpretano questa storia, senza poterne ammirare l’assoluta originalità con cui sono stati creati da Anderson, la trama di questo film può apparire alla stregua di tante altre con l’eventuale curiosità di sapere come va a finire la vicenda.

Invece, è proprio la messa in opera, il disegno dei particolari fatto dall’artista che rende speciale ‘Moonrise Kingdom, titolo che si riferisce alla baia in cui si vanno a nascondere i due ragazzi; tecnicamente sulla mappa il suo nome è ‘Miglio 3.25 di Tidal Inlet’, ma, per loro, si tratta di un luogo magico e segreto e perciò lo ribattezzano Moonrise Kingdom.

L’aver ambientato la storia negli anni ’60 regala fascino ed enfatizza l’atmosfera senza però amplificare il cromatismo delle scene che risultano il più naturali possibile; eppure, non mancano le scelte tecniche che rendono Anderson un grande regista, come l’introduzione, a dir poco straordinaria, con la macchina che si muove tra le varie stanze della casa in cui vive la protagonista soffermandosi, quasi volesse creare delle istantanee o meglio dei quadri per ognuno degli ambienti filmati.

Le caratteristiche dei vari personaggi non occupano la scena in maniera invasiva ma delineano i contorni di una storia che non può prescindere dal volenteroso Capo scout, interpretato da un Edward Norton a dir poco e piacevolmente atipico, così come dal triste e solitario poliziotto, che ha le sembianze di un bravissimo Bruce Willis, e, naturalmente, non può far a meno dei Bishop, i due avvocati genitori della piccola Suzy che, grazie agli eccezionali Bill Murray e Frances McDormand, bilanciano le sorti emotive della trama mostrando le difficoltà del mondo adulto contrapposto a quello adolescenziale dei protagonisti.

I personaggi: maschere stravaganti e “disfunzionali”

I due ragazzi che interpretano i personaggi principali sono perfetti.
Jared Gilman e Kara Hayward sono l’emblema assoluto del Cinema di Anderson e concentrano nei loro sguardi, così come nell’andamento e nella parlata, la caratteristica principe delle maschere che il regista mette al centro dei suoi racconti, la stravaganza.

Nella storia, entrambi vengono considerati “disfunzionali”, Sam addirittura pazzo in alcuni casi, mentre Suzy semplicemente diversa perché lontana dallo stereotipo delle adolescenti degli anni ’60.

L’incontro, la corrispondenza, la fuga, la crescita della complicità, l’innamoramento di Sam e Suzy hanno poco di convenzionale nonostante persista un’atmosfera magica nei momenti in cui sono insieme e la dolcezza non viene accantonata neanche quando affrontano le situazioni più difficili.

Il contorno dei film di Anderson non è mai fine a sé stesso e ancor di più in Moonrise Kingdom in cui la scelta del narratore che parla al pubblico non è semplicemente un vezzo perché l’attore Bob Balaban, in questo caso, fa da bussola e da barometro per la storia, oltre a diventarne parte integrante per una breve scena.

Stesso discorso vale per fondamentali quanto eccellenti cameo di Harvey Keitel nei panni di un Comandante Scout, di Tilda Swinton che interpreta la crudele Signora Servizi Sociali e di Jason Schwartzman nei panni di un famigerato scout-factotum, ma, in fin dei conti, non fondamentali quanto il gruppo di bravissimi ragazzini nel ruolo degli scout compagni di Sam, così come i tre piccoli quanto inquietanti fratellini di Suzy.

La sceneggiatura, scritta da Anderson con Roman Coppola, è solo uno dei tanti cardini di ‘Moonrise Kingdom, un film fatto di numerosi particolari visivi e scenografici, di vestiti stravaganti e scenari affascinanti, di elementi pittorici che sembrano usciti dai quadri sui boy scout di Norman Rockwell e di tratti fantastici ispirati dalla scrittrice inglese Susan George.

La colonna sonora, affidata ad Alexandre Desplat, diventa protagonista con le canzoni di Françoise Hardy e le composizioni sinfoniche di Benjamin Britten.

L’universo cinematografico di Wes Anderson che conoscevamo grazie a ‘Rushmore, ‘I Tenenbaum, ‘Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou e ‘Il Treno per il Darjeeling, trova in ‘Moonrise Kingdom un significativo e ideale proseguimento di quell’eccentrico percorso fatto di commozione, umorismo surreale, malinconia, disillusione ed elogio della stranezza non per moda ma in quanto modo di essere.

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Autore Paco De Renzis

Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.