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L’Equatore, il grande confine

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Agosto 2003

Igoji. Monte Kenya. Kenya. Quella mattina  Francesco ed io eravamo di riposo dal turno in ospedale. Scendemmo al villaggio. Lungo la strada ci accorgemmo di un cartello arrugginito. Giallo. Ammaccato. Piegato tra i rami degli alberi. Era l’Equatore! Il cartello indicava l’attraversamento dell’Equatore. I nostri piedi l’attraversavano.

Potevamo tagliare in due i nostri corpi occupando contemporaneamente due delle parti del mondo. Una delle divisioni fittizie create per regolare la nostra vita. Il confine di un mondo. Anzi i confini del mondo che si fondono in una linea di poco più di 40.000 km dove i colori svaniscono e il tutto ritorna uno. Il più lungo dei confini da noi creati. Il taglio della mela. Netto. Un colpo d’ascia nel mezzo. Il confine. Eccolo sotto i nostri piedi.

In un mondo di confini immaginari che dovrebbero essere cancellati per sempre, questo attraversa la povertà e la miseria. La nostra povertà, la nostra miseria. L’Equatore! Da un lato il tecnologicamente avanzato dall’altro tutto il resto. Il resto del mondo che abbiamo deciso che debba essere relegato in gabbie di vetro. La linea grigia che è il centro tra altri due confini, quelli che forse davvero delimitano noi dal resto del mondo, i due Tropici.

Una fascia che trattiene il mondo di sotto. Il mondo che non deve emergere. Allora vedi i popoli che vivono queste gabbie e ti insegnano che non ha senso parlare di confini.

Per i Masai che attraversano terre dalla Tanzania al Kenya e viceversa, percorrendo i cammini tracciati secoli prima dai propri antenati che senso ha il confine? Per noi che senso ha? Viviamo di differenze e i confini ci aiutano a rimarcarle, a stabilire “chi siamo” dandoci un sentore di appartenenza, che, però, si rivela pura apparenza. Ci rassicuriamo di una sicurezza illusoria. E lo dimostra quel cartello abbandonato.

Ai Kikuyu, ai Meru, ai Samburu, alla gente che ogni giorno combatte per sopravvivere a ridosso dell’Equatore non serve! Non sentono il confine. Sentono solo la terra rossa che calpestano. Le guerre di cui sono state vittime hanno avuto nella corruzione il loro fuoco. La corruzione dei politici e dei militari ad opera dei nostri gentiluomini, che tracciano, cancellano e modificano confini su mappe di carta.

Il confine è la conseguenza della stanzialità. Della paura della perdita del possesso. Dal nomadismo alla stanzialità, dalla libertà al confine. Tutti presi a proteggere il nostro piccolo giardino. Il nostro piccolo angolo di sicurezza per quella paura profonda dell’immensamente grande, dell’immenso unito in tutti.

Camminavo su quella terra rossa dagli odori forti e completamente diversi da quelli a cui ero abituato. Camminavo insieme a storie a me lontane. Erano i miei confini. Si dissolsero.

Divenni parte di quegli odori, parte di quelle storie. Non conosco i pensieri di Francesco, ma il silenzio si era impadronito di quel momento. E ci accompagnò fino al villaggio dove le voci del mercato e dei bambini accolsero quel silenzio cambiando ogni nostro passo.

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!