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Le scelte del dopo

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Dopo di noi, dopo questo lungo tempo, dopo il silenzio e il vuoto, cosa saremo? Avremo ancora occhi per guardare lo scorrere del tempo senza avere la paura che da un momento all’altro un nuovo mostro avvilisca le nostre esistenze?

Saremo in grado di capire l’essenza della “non vita” che abbiamo attraversato? Saremo confusi e smarriti in attesa che un padrone ci riprendi al collare? Ammettiamolo, oggi siamo il seme di quello che verrà.

E se ci crediamo abbandonati o sepolti in queste mura, non abbiamo compreso che questo sacrificio è la speranza del nostro stesso futuro, è l’offerta che stiamo facendo per vedere domani da vicino quello che oggi riusciamo a immaginare, a ricordare e a sognare.

Guardando al passato, dopo i conflitti mondiali, la vita, seppure con tutte le difficoltà ovvie e conseguenziali derivati da una catastrofe immane, gradualmente ha saputo prendere il sopravvento sull’abisso e l’uomo è riuscito a ricostruire.

Dopo appena due decenni dalla fine del primo grande conflitto, e dopo un periodo di relativa ripresa economica, l’Italia si vedeva ex novo impegnata in un evento tragico. Complessivamente la guerra trascinò 61 nazioni e 110 milioni di persone; i morti furono 55 milioni, circa 35 milioni i feriti e 3 milioni i dispersi.

Le spese totali della guerra, secondo una stima approssimata, ammontarono a 1500 miliardi di dollari dell’epoca. Gli italiani periti in combattimento furono circa 400 mila tra il 1940 e il 1945.

A differenza della Prima Guerra Mondiale, gli effetti del conflitto si espansero per tutta la Penisola. Il prolungare delle operazioni ridusse progressivamente le scorte di materie prime, le risorse umane e finanziarie.

Le ostilità termineranno il 25 aprile 1945: l’Italia era liberata, ma restavano gli effetti della guerra in un Paese che tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 aveva conosciuto il peso della distruzione prodotta sia dalle truppe tedesche in ritirata, sia dai fitti e violenti bombardamenti alleati.

All’indomani della guerra la situazione economica del Paese era grave e reclamava una forte e urgente soluzione. Le attrezzature industriali produttive erano state distrutte, l’inflazione dilagava vertiginosamente, la riduzione della bilancia dei pagamenti, il deficit e la mancanza di valuta, erano criticità che chiedevano una soluzione in tempi rapidi.

Disoccupazione ai massimi livelli, settore agricolo arretrato, insufficienza della produzione di energia elettrica, inefficienza nei trasporti, proiettavano l’Italia in un nuovo tunnel nero. In una nazione con prospettive economiche deprimenti, le forze di governo, unite e coerenti nelle scelte da compiere e nelle priorità da applicare, confortate dalle promesse degli aiuti americani, capirono che era fondamentale un’azione incisiva ed attiva per assicurarsi il rifornimento di tutto quanto potesse spingere all’incremento dell’occupazione, alla ripresa delle industrie settentrionali e alla loro riconversione per adattarsi alle nuove esigenze di mercato.

La ricostruzione fu affrontata prontamente. L’inizio di una sua vera e propria concretizzazione, nel senso che il governo italiano fece con larga autonomia le proprie scelte, riattivando la ripresa produttiva di tutti i settori e in modo particolare di quello industriale.

Sul piano economico, gli effetti di queste azioni si fecero sentire sulla ripartizione del reddito, sui consumi e sulla struttura dei prezzi, mentre venne incoraggiata la formazione speculativa di scorte.

L’aumento molto evidente delle importazioni produceva allo stesso tempo una crisi valutaria che le condizioni di svalutazione incontrollata contribuirono ad aggravare. Le misure che il governo assunse a partire dal settembre 1947 e che presero il nome di “linea Einaudi”, consistettero, in primo luogo, nell’istituzione di un obbligo di riserva consistente per tutte le banche.

Fu alzato il tasso di sconto, agendo sul mercato dei cambi per far avvicinare il tasso ufficiale, molto basso, a quelli del mercato libero e parallelo – riservato a certe categorie di esportatori da un provvedimento del 1946 – e a quelli del mercato nero, molto più elevati.

Nella sostanza, si trattava di una svalutazione, però verificata, che servì per abbattere le importazioni oltre che a supportare gli esportatori ai quali, comunque, la forte domanda internazionale consentiva un certo margine.
A queste seguirono altre misure di restrizione.

La gestione della spesa pubblica, a partire dal 1947, fu molto prudente, procedendo per gradi ad una riduzione del deficit pubblico pareggiate però dal rifinanziamento di industrie pubbliche, come l’aumento del fondo di dotazione dell’IRI, e di industrie in stato di crisi, costituzione del FIM.
Le misure scelte contennero l’inflazione.

Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinnanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.
Enrico De Nicola 

Possiamo sperare che lo shock sia momentaneo, prevedendo una ripresa molto rapida, auspicando che lo squilibrio o il malessere del mercato non si sia radicato nel modello economico ma sopravviva come una variabile extra, da debellare sicuramente ma non tale da far affondare completamente il sistema. Il tempo in merito è un fattore determinante.

Nel lungo periodo, il rischio è alto: se ci rifacciamo a Lord Keynes, il pericolo sta in quello che questa pandemia potrà produrre, con perdita di lavoro, chiusure delle attività, rischio sui risparmi…

Abbiamo l’opportunità di amministrare questo rischio, ma l’urgenza inderogabile è quella di produrre processi integrati che siano capaci di coinvolgere tutti gli attori in gioco: dalle autorità pubbliche ai settori produttivi, di distribuzione e di consumo, con il forte coinvolgimento delle persone e dei cittadini.

Il principio di cautela alla base delle politiche e delle azioni da mettere in vigore deve avere, a mio avviso, il bisogno di rinvenire il corretto equilibrio in termini di proporzionalità, non discriminazione, trasparenza e coerenza, prevedendo interventi regolatori diretti solo laddove sussista il ragionevole dubbio di severi effetti sulla tutela della salute.

Sul piano dell’impegno economico, quindi, il punto da cui partire è essenzialmente uno ed abbraccia anche la sfera sociale e politica del nostro Paese: la salute. Questa deve essere considerata un bene pubblico e deve essere garantita con efficienza e piena contemplazione della Carta costituzionale che la riconosce come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

Uno degli effetti della piaga Coronavirus è stato quello di rendere concreti i costi, anche economici, generati dal vuoto di regole globali sulla tutela della salute – dai mercati di animali vivi in Cina alla capacità di identificare celermente un’epidemia – e di modelli sanitari e di welfare attuati in tutti i Paesi.

La stessa criticità si paventa per le diverse disgrazie ambientali, di oggi e di domani, prodotte dal mutamento del clima e dalle riluttanze al cambiamento nelle politiche e nelle decisioni delle aziende. La deduzione naturale di quanto stiamo affermando è che va rifinanziata in modo robusto tutta l’azione pubblica – sanità, scuola, università, ricerca, previdenza, assistenza, ambiente. Un obiettivo ragionevole per l’Italia è di arrivare agli standard nord-europei in termini di spesa per cittadino e di qualità dei servizi.

Bisogna rendere produttivo il sistema sanitario, non legandolo alle logiche economiche settoriali né a dinamiche partito-centriche; non occorrono strategie di profitto ma interessi di tutela sociale. Non serve la vocazione all’altruismo ma è la diretta e soggettiva conseguenza di una politica dell’etica o rientra nei canoni dell’etica politica.

Se continuiamo a concepire le strutture sanitarie come un peso che grava sul bilancio di uno Stato, saremo tutti responsabili di quello che oggi stiamo vivendo.

La vera ricchezza non sta nel possedere oggetti d’oro o d’argento, ma nella salute.
Mahatma Gandhi

In questi di giorni di solidarietà digitale – a qualcuno di noi sarà parsa più farsa digitale – abbiamo capito quanto la tecnologia si sia addentrata nei meccanismi della nostra vita quotidiana, avviluppandoci in una morsa dove il beneficio ci pare superiore del sacrificio.

E per beneficio mi riferisco all’evidente possibilità di poter dare un connotato di umanità a questa solitudine, con collegamenti che hanno attraversato l’intera Penisola, grazie a tutte le piattaforme social / cloud / meeting che hanno concesso a tutti noi di vedere il viso di un parente e di un amico caro, annullando le distanze e sforbiciando l’isolamento coatto. Un metodo antiansia che è risultato finora vincente.

Per sacrificio intendo l’impossibilità di staccarci da questo nuovo cordone ombelicale. L’essere costantemente connessi, non poter annullare o rifiutare un incontro o una chiamata perché farlo in questo momento sarebbe parso molto poco “solidale”.

Quando finirà questa lunga “segregazione” dovremo fare i conti anche con l’effetto della troppa isterica e nevrotica socializzazione passiva.

Saremo in grado di disinstallare tutte le app di comunicazione a cui in questi giorni ci siamo collegati?

Saremo capaci di non chattare, videochiamarci, inviarci video o vocali, senza dare continuità a questo fenomeno che è stato l’unico ponte con chi era fuori dalla nostra porta?

Resta chiaro, comunque, che la tecnologia ha avuto una funzione significativa nell’arginare l’avanzata del virus, almeno in termini di supporto.

Il Center for Systems Science and Engineering della Johns Hopkins University ha creato una dashboard online per visualizzare e tenere traccia dei casi di Covid-19 nel mondo, segnalati su base giornaliera.

La mappa espone i nuovi casi, i morti confermati e i guariti. Per la prima volta da quando abbiamo accesso alla rete, è possibile approfondire lo scenario di un contagio in real time.

Inoltre, il genoma del virus è stato interamente sequenziato dagli scienziati cinesi in meno di un mese; quanto è stato reso possibile grazie allo sviluppo della tecnologia e alla spinta data dalla collaborazione internazionale con Baidu, il motore di ricerca più usato in Cina che ha fornito il suo algoritmo Linearfold per i team che stavano combattendo l’epidemia.

In altre parole, il futuro dell’umanità è legato a doppio filo con la dimensione digitale: la sfida tutt’altro che semplice e si scontra con l’aspetto economico e con quello del diritto alla privacy e al lavoro.

Il primo è meramente in relazione alla capacità di uno Stato di assecondare con azioni di investimento pubblico sulla crescita del settore, sensibilizzando anche le imprese private, assecondando il potere di acquisto delle famiglie, attivando una strategia basata sulla programmazione, sull’incentivazione delle start up, rilanciando con investimenti mirati le idee più vicine alle urgenze del cittadino.
La tecnologia dopo la salute, insomma.

C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti.
Henry Ford 

Il secondo è legato a quanto abbiamo letto o vissuto in questi giorni che ci ha aperto scenari nuovi ma non nuovissimi: si rincorrono sui media di tutto il mondo notizie sui più disparati strumenti tecnologici che offrono sì delle soluzioni di monitoraggio sui contagi, ma che non sempre sono conformi a regole in materia di privacy e tutela dei dati personali; scontrandosi con i sistemi garantisti dell’occidente, ed europei in particolare.

Il dibattito è forte tra i techno – fan che sono disponibili in misura extra-large a fornire i dati personali a qualsiasi costo e i privacy advocate che, in nome di un integralismo normativo, si oppongono: non è facile trovare soluzioni adeguate al GDPR per ridurre al minimo le violazioni alla privacy.

Va ammesso che, ad oggi, la sicurezza della rete è molto vulnerabile.
Il lavoro, ma così come anche l’istruzione, grazie ai prodigi tecnologici, sta ottimizzando al massimo gli sforzi da compiere, provando ad adattarsi ad uno scenario che muta progressivamente e che fino a qualche anno fa avrebbe messo letteralmente ko entrambi i mondi.

Oggi, post riduzione degli orari degli uffici e del commercio e il divieto a muoversi da casa, si è potenziato lo smart working, il cosiddetto “lavoro agile”, quale modus di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e organizzato per remoto, attraverso l’uso dei computer e di Internet.

Tanto lavoro può essere modificato in telelavoro da casa, senza che ne perda la produttività e con un netto risparmio in termini economici che comporta “andare a lavorare in ufficio”, oltre a vantaggi per l’ambiente.

Dalla paura abbiamo capito l’importanza di essere più uniti, più obbligati a seguire una morale unica, di non crederci invincibili, di guardare in faccia alla realtà imparando dagli errori del passato. Abbiamo compreso che nulla non si può fare se non ci proviamo veramente fino in fondo.

Sono salute e tecnologia, quindi, i capisaldi su cui muoverci nel futuro con azioni mirate atte a sostenere ogni incipit e a incoraggiare, con slancio, ogni iniziativa meritevole.

Siamo chiamati tutti in causa a beneficiarne ma in primis a promuovere, con vigoria ed impegno metodico, lo sviluppo della tecnologia e la difesa e la tutela della salute pubblica, partendo dall’etica personale che deve essere rafforzata, dalle scelte politiche che faremo, dalla comprensione che l’egoismo e la miopia che spesso investono la nostra quotidianità hanno allentato se non azzerato la nostra potenziale energia positiva e il nostro amore per la vita.

Dobbiamo partire dai bambini: è facile oggi drammatizzare l’evento in cui – dopo le vittime del virus e i lavoratori, dai medici alle forze armate, dai dipendenti pubblici a quelli privati che non hanno potuto utilizzare lo smart, dai camionisti alle commesse dei market, che sono in prima linea, i primi ad essere colpiti sono proprio loro; questi piccoli che oggi vivono come in un film o come in un reality nelle loro case senza avere la possibilità di godersi le giornate secondo l’abituale calendario degli impegni e giocando all’aria aperta.

Dobbiamo proiettarci al futuro pensando a loro, difenderli dai nostri errori, costruire un ponte sicuro per i giorni che verranno e in cui loro saranno protagonisti. Sarebbe un errore imperdonabile fossilizzarci sul presente e non dare un senso al domani dei nostri bambini.

È la loro prima guerra, strana, infima, strisciante, certamente aiutata da una generazione più esperta, più pronta e più supportata, per l’appunto, dalla tecnologia ma comunque una guerra con un nemico incomprensibilmente invisibile.

Qualcuno scrive che andrà tutto bene. È così, andrà bene, usciremo da questa notte.

Svegliamoci ora, però.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.