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L’Orrore

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Orrore - vita


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Non conosco più nessuna parola, non capisco nessuna lingua. Sono di pietra.
Franca Rame

L’orrore non appartiene al buio. Forse, un tempo qualcuno ha disegnato la paura con il nero e l’ha resa celebre, collegando quell’attimo ad un sempre onirico.

La suggestione è un silenzio che attraversa un corridoio infinito dove i volti appaiono e scompaiono, gli sguardi si manifestano dentro una nuvola oscura, il pensiero crolla come un palazzo senza più fondamenta su se stesso.

È polvere, è cenere, è immondo il dolore come la vergogna che corrode le vene. Il sangue urla, la bocca è tappata da una mano o da mille dita. Sembrano vermi che brulicano su di te, il fuoco irrompe ovunque e la vita si sgretola, si annienta, brucia in un futuro che non puoi più vivere.

Ah Dio perché a me? Dio perché hai voluto questo?

Faccio fatica a capire e meno ancora posso pregare. Non ho tempo per chiedere un miracolo, non ho tempo e non ho la forza. Lo aspettavo il dolore, ma non pensavo fosse così violento e non pensavo potesse essere questo orrore.

Quanti siete e che volete da me?

Sono un corpo non la vostra bambola. E penso che ad una bambola avreste fatto meno male anche solo nelle intenzioni. I pensieri scorrono, non sono un fiume sono rapide che sfruttano una veemenza di rabbia e di agghiacciante frustrazione.

Papà dove sei? Papà ti ricordi quando mi portavi sulle spalle e giocavamo al mare?

Lo vedi che succede quando tu non ci sei. Vorrei tornare indietro ma non ho un orologio che possa portarmi al nostro tempo, devo cacciare le ore del diavolo che mi sta sbranando l’anima. Silenzio, puzza di bocche tra tabacco e fiumi di parole che tagliano la pelle.

Le conosco queste parole: ti rovinano sulla faccia, tra sputato e lapilli di merda che mi investono. Non ho un riparo e il mondo non c’è. Sono tutti fuori dal mio dolore, fingono che tutto vada bene ed invece guardano altrove, perché non ci sono mai alternative.

Non so chi sono, non so quanti sono. Hanno cominciato ad inseguirmi, ero la loro preda e poi la loro tana. Mi hanno spinto, deriso, toccato e poi… e poi l’orrore.

Mamma lo so non è così l’amore, ma io, un giorno, potrò mai imparare a perdonare?

Più piango, più si divertono. Più soffro e mi dispero, più loro si sentono sicuri. Sono una cagna al loro collare. Non sento il cuore, è morto. Vado avanti con un respiro che è sgomento e pazzia, come se una forza irrazionale mi desse un’altra opportunità.

Vorrei girarmi dall’altra parte, fingere che sia solo un incubo, ma sento i loro corpi viscidi, sudati, affannati e affamati, confusi e deliranti, porci che si buttano sulla loro scodella senza guardarci dentro. È solo per il gusto di saziarsi.

No, non sono umiliata. Non è colpa mia. Io non ho fatto nulla. Poteva capitare a te, a lei, a tua madre o a tua sorella. Poteva capitare a chiunque: l’orrore non guarda in faccia nessuno, vuole solo giocare con il tuo destino, vuole morderti le ossa, sanguinarti la strada che farai.

Ridono e come ridono, si sfottono, si istigano, si fomentano, sono bambini che litigano sul panino. No, non sono mostri: quelli non esistono, li inventa la fantasia dello scrittore.

Loro sono uomini – topo, ratti che devastano una casa, che bramano ossessivamente la bellezza del fiore e godono quando lo vedono accasciato a terra, spento, distrutto, spiaccicato sul selciato, è un’orma dimenticata di quello che poteva essere e non sarà più.

Addio fiore, addio. Sento stanchezza, mi sento spezzata. Le costole sono piegate, le gambe non tremano più. Sono binari flosci dove ora possono scivolare senza opposizione. Vorrei una carezza, vorrei che qualcuno mi desse le sue parole per dare un senso a questo vuoto. L’abisso dell’inferno è reale, è quello che si immagina per altri ma poi accade a te.

Domani che farò, provo a immaginare un’altra vita ma che ci faccio qui?

E uno, e due, e tre, e quattro e… non li conto, non li immagino, li dimentico uno per volta. Mi fanno schifo, ma non è lo schifo che provi quando calpesti una merda o senti il puzzo del vomito. No, è lo schifo che viene dalle viscere della mia anima, che ti fa mordere la lingua fino a sanguinare, che ti spacca i denti, che ti bestemmia dentro ogni preghiera che hai imparato nella tua esistenza.

Ora cantano e assaltano. Ridono più forte di prima ma li sento affannati. Non è il peso della loro coscienza. Ora volo, voglio volare. Vedo tutto più piccolo da quassù. Formiche, siete formiche. Non siete uomini, non avete nulla che possa sembrare umano. Piccoli scarafaggi, non vi voglio più vedere.

Sono in alto, tra le nuvole e le stelle e non vi vedo più. Ora parlo con gli astri che mi cullano e mi fanno ricordare le lune che vedevo le sere d’estate dalla finestra della mia camera. Poi cado, improvvisamente cado a terra. Ho la faccia sul pavimento e le mani legate.

La gonna è uno straccio, i seni sono schiacciati e loro sbavano. Qualcuno mi ha spinto giù e dal cielo sono nel buio. È tutto nero, ancora più denso. Spegniti cervello, spegniti e non pensare. Fingi di non capire. Fingi di morire che solo così sopravvivrai.

Si fermeranno, vedrai si fermeranno. Magari li faranno scappare, sentiranno un rumore che li spaventerà. Vedrai che fuggiranno e torneranno nelle loro tane. Si nasconderanno, abbracceranno le loro madri, magari la sorellina più piccola, magari la fidanzata o la moglie non lo so. Hanno un letamaio che sa di profumo costoso di qualche boutique del centro.

Ehi, tu, respira, datti ancora altri cento, mille respiri. Passerà tutto, passerà questo dolore infinito e tornerai a ridere e a baciare. Voglio crederci, voglio illudermi, voglio perdonare Dio o chi per lui che ha voluto questo orrore, tutta questa miseria. Cosa siamo, cosa diventiamo.

Brulicano ancora, calpestano ancora. Non sento più dolore, solo distratta dalla speranza che tutto finirà. Prima o poi. Magari, alla fine mi uccideranno. Per zittirmi, per disperazione, per dare un senso a questa vigliaccheria.

Ho solo le gambe che non avverto più e la schiena che pare piegata in mille pezzi. Girano intorno, girano come se fosse un rito, una danza tribale che deve essere l’offerta ad un loro divinità schizofrenica, sono pagani che adorano solo la carne. Oddio la carne, è questa roba che ho addosso che mi ha strappato ai miei giorni normali, alle mie banalità quotidiane, ai miei sogni migliori e alle mie speranze più suggestive.

Avrò tempo per capire, per costruire una nuova vita, magari andando via da qui, da questo inferno che non ha perdonato il mio essere donna, il mio essere femmina. Voglio andare via o restare. Sì, restare, per guardare in faccia a quest’orrore e guardarli negli occhi ad uno ad uno. Vederli invecchiare senza perdono, vederli morire della loro stessa paura di sopravvivere alla loro maligna condizione di uomini topo.

Li voglio vedere un giorno, magari lontanissimo, correre dietro ad un loro figlia o una loro nipotina e avere paura. Sì, avere paura che quella corsa non abbia il lieto fine. Avere paura che quella piccola donna un giorno possa incontrare sette piccoli miserabili uomini – topo e morire dentro in un sempre che non conosce spazio né tempo.

Vi guarderò in faccia uno ad uno e vi annullerò. Vi sbatterò in faccia queste ore di bava, sangue, sudore e sporcizia. Siete morti, mentre io, quando mi rialzerò e attraverserò questo abisso, nel vedere la luce, anche solo un piccolo barlume di luce in fondo a questo orrore, avrò vinto la mia battaglia contro i vostri demoni e rinascerò. Come un fiore meraviglioso sopra una montagna di merda. Come una donna vera contro un mondo infame.

Chiudete la bocca, io rimango me stessa.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.