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Fade to Black, web serie on line dal 16 ottobre

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ExPartibus intervista i registi della miniserie noir

Dal 16 ottobre sarà online Fade to Black, la the web series di Vittorio Adinolfi, prodotta da Dina Ariniello – Sasi Pro, diretta da Nicola Guarino e Vittorio Adinolfi, con Marco Cavalli, Nicola Guarino, Simona Barattolo, Diego Sommaripa, Marco Pesacane, Pasquale Ziello e Valentina Iniziato.

Atmosfere noir degli anni ’50 che si alternano a riferimenti contemporanei per raccontare, con originalità e sovrapposizione di linguaggi diversi, un plot che prende solo spunto da una vicenda di cronaca come la tragedia che si consuma nella terra dei fuochi per indagare, in realtà, nell’animo umano.

Walter Quasimodo, investigatore privato in cura da uno psichiatra per riprendere in mano le redini della sua vita dopo un esaurimento nervoso in seguito all’abbandono della moglie, viene contattato da Adriana, affascinante quarantenne in cerca della figlia, scomparsa senza lasciare tracce.

Il ‘ficcanaso’ di professione, nell’arco delle sei puntate, incontrerà Tancredi, uomo di dubbia moralità, amministratore di un paese di provincia inquinato da rifiuti tossici.
Sullo sfondo, un luogo non luogo ed altri personaggi particolari che si scopriranno essere diversi da ciò che apparivano all’inizio.

Chiediamo proprio ai due registi, Nicola Guarino e Vittorio Adinolfi, di darci qualche dettaglio in più sull’ennesimo progetto realizzato insieme. Affiatatissimi e legati da stima personale e professionale si capiscono perfettamente, tanto che l’uno può dar tranquillamente voce ai pensieri dell’altro senza alcun margine di fraintendimento. L’intervista appare così corale e non esclusivamente riferibile all’uno o all’altro.

Partiamo dal nome Fade to Black è una metafora che fa rifermento alla morte, richiamata diverse volte nella web series, si materializza in domande a sfondo esistenzialista poste in maniera molto diretta, ma rimanda anche ad una canzone dei Metallica, è voluto?

Il titolo della web series, chiaramente psichedelica, Fade to Black, è assolutamente riferito alla morte, ma in realtà dovremmo chiederci cosa essa sia. Partiamo da quest’assunto: la dissolvenza è un accorgimento tecnico prettamente relativo alla settima arte e non esiste, in altri ambiti delle arti figurative, una dissolvenza al nero. Quella nella nostra serie si richiama più che al trapasso stesso al momento dell’amnesia, della dimenticanza, dell’oblio, ma è anche un modo per sottolineare allo spettatore che stiamo usando un trucco cinematografico, per dichiarare che il nostro immaginario non è realistico ma artificioso.

In Fade to Black ci sembra di cogliere la sovrapposizione di diversi livelli di realtà, quella di Walter Quasimodo, quella del personaggio che sta scrivendo la storia del detective, ma anche un immaginario che finisce per sovrapporsi a quella che dovrebbe essere la realtà stessa, come sottolineato dall’uso del bianco e nero e del colore. Potremmo anche interpretarla come un continuo contrapporsi tra conscio ed inconscio?

Nel corso degli episodi si capirà che la manipolazione, più che alternarsi tra conscio ed inconscio di Walter, avviene a tutt’altro livello.
Forse, più che di storia lineare, dovremmo parlare di un eterno presente. Come nella mente di ognuno di noi, in ogni istante, si avvicendano stati di realtà immanente, ricordi che, anche se dimenticati, sembrano vivi, così, potenzialmente, in ciascuno di noi c’è già tutto il futuro, in ogni attimo della nostra vita siamo virtualmente anche nel nostro avvenire.

Fade to Black cerca di esprimere questa necessità di interpretare l’esistenza in maniera fantasiosa, creativa, cosa che fa Walter, il protagonista, che dopo il ricovero in ospedale inizia a pensare di essere negli anni ’50, e ad usare solo oggetti analogici e non digitali.

Il costante uso della videocamera da parte di diversi personaggi sembra essere una citazione da ‘Lo stato delle cose’di Wenders, la registrazione come un modo per fissare e rendere illusoriamente oggettiva una realtà che sfugge in continuazione. Anche questo vuol essere un filo conduttore della web series o in fondo è una metafora del cinema più in generale?

Relativamente alla sceneggiatura, quando i personaggi contemporanei hanno necessità di mantenere una memoria ricorrono alla camera per tracciare conversazioni o fissare una parte dell’ambiente circostante.

All’inizio della serie Walter adopera un vecchio registratore a nastro per sé, mentre utilizza la videocamera per gli altri, come se fosse consapevole della sua inadeguatezza all’attualità nel relazionarsi con il mondo esterno.

Inizia poi ad usare un linguaggio diverso, a riprendere con la cinepresa a 8 mm, di cellulosa.

Ovviamente tutto il girato con la videocamera digitale e analogica è molto più ampio di ciò che invece riprende con la cinepresa che, per sua stessa natura, implica un filmato essenziale, dato che la pellicola non è riutilizzabile come il magnetico, l’audio è assente e la durata minima.
La scelta di servirsi di strumenti oggettivamente più limitanti è strettamente legata alla storia personale di quest’uomo che, dopo un esaurimento nervoso conseguente all’abbandono della moglie, fa idealmente un salto all’indietro come se regredisse ad uno stadio precedente.

In pratica, impazzito dal dolore, vuole dimenticare la donna che lo ha ferito e, in una sorta di processo di negazione e di rimozione, torna ad una realtà precedente in cui tutto è più materiale. Se con la compagna aveva usato il magnetico e l’elettronico ora necessariamente li deve abbandonare, dato che il solo ricordo gli genera sofferenza, per preferire strumenti meno tecnici e più fisici. Ed ecco il perché della fotografia di carta, della pellicola per 8, invece del magnetico e del digitale; è lo stesso Quasimodo ad aver bisogno di fisicità.

Ma questa è solo una linea narrativa, perché poi scopriremo altre cose; più che una metafora del cinema è proprio un intento di scrittura.

Le atmosfere surreali, oniriche sono una costante dei lavori di Nicola Guarino, ma anche delle sceneggiature di Vittorio Adinolfi, e in questo caso sono particolarmente accentuate, sottolineate da inquadrature e musiche, tanto da diventare claustrofobiche. Deriva forse da una visione della società?

Le atmosfere sono sicuramente surreali e l’aspetto claustrofobico è angosciante, più che altro sono sogni, di cui, ovviamente, fanno parte anche gli incubi. L’aspetto onirico ossessivo-assillante è una componente da tenere in considerazione.
Nel campo delle arti figurative, poi, il sogno si presenta esclusivamente come una sorta di film personale, inconscio, in cui, a volte, senza alcuna apparente logica si susseguono degli eventi che in realtà per noi hanno un significato ben preciso.

Nella serie ricorre il concetto di inferno, di diavolo? Ma chi è, in definitiva, il diavolo, l’uomo stesso?

Indubbiamente il diavolo è la guida, ma occorre fare una premessa. Quando affrontiamo queste figure di riferimento così iconografiche, per una questione di cultura pensiamo al diavolo prefigurato dal cattolicesimo che, a sua volta, lo manipola, con ignoranza, per ciò che concerne la parte filologica, storica, letteraria.

Il diavolo è l’uomo? Il diavolo è un uomo, così come dio è un uomo; chiunque siano gli dei e i demoni sono uomini; nella cultura orientale è addirittura lo spirito che ci anima.
Il diavolo è colui che mette in moto le marionette, che inscena lo spettacolo, che anima i burattini, un manipolatore in senso lato.

Ora due domande espressamente per Nicola Guarino.

Hai sostenuto che il cinema per te non deve avere una funzione didattica e in effetti Fade to Black, pur trattando della problematica della terra dei fuochi non vuol essere una denuncia. Si tratta solo di un gancio narrativo, uno dei possibili specchi della violenza umana o ha qualche altra valenza?

La terra dei fuochi non è solo un espediente narrativo, c’è una frase molto bella che Vittorio fa dire al personaggio di Tancredi quando racconta a Quasimodo la questione della terra marcia, inquinata fin nel profondo delle viscere. Una terra infetta contamina anche le persone e, nonostante azioni positive, lo stato delle cose non cambia.

Trovo molto interessante il fatto che l’espediente narrativo della terra dei fuochi, che poi, a ben vedere, è la parte più realistica di tutta la web series, sia assolutamente surreale, mentre invece la parte più documentaristica sulla discarica abusiva, oltre ad essere un stratagemma funzionale alla storia, sia anche simbolica, avendo Fade to Black una traccia legata alla psicanalisi.

Mi spiego meglio. Nel profondo dell’animo umano c’è un posto in cui ognuno di noi va a buttare tutte le scorie più velenose di sé, pensando di dimenticarle, di seppellirle sotto una coltre di terreno e di tempo; invece, il fatto che non vi si presti più attenzione non cancella e non annulla la conseguenza della loro permanenza; tali rifiuti nocivi, rimanendo lì, corrodono anche resto dei nostri pensieri.

Ritengo Fade to Black un prodotto estremamente originale che affronta un tema di cronaca fuori da ogni canone di racconto di questa situazione attuale. In questo credo che il lavoro di Vittorio Adinolfi sia stato assolutamente originale e fantastico.

Nicola sei impegnato in generi diversi, televisione come regista RAI, teatro, corti, lungometraggi, come Immoral love. Il web è un canale ancora diverso, cosa cambia come linguaggio e dinamiche?

Per quanto riguarda i linguaggi, oggi non si può affatto essere settoriali. Tendenzialmente non riesco ad esserlo, a dividere la mia voglia di creare dei prodotti; cerco, piuttosto, di sfruttare il mezzo che ho in quel momento, avendo magari un po’ più di esperienza in un campo, di talento in un altro, nessuna esperienza e nessun talento ma tanto coraggio in un altro ancora.

Quest’opera è molto personale, anche le musiche sono mie, eppure fatta in simbiosi assoluta con Vittorio, viene fuori un’opera molto particolare, sperimentale e sicuramente postmoderna.
Il rapporto tra me e Vittorio è molto complicato; è sì di dualismo ma senz’alcuna prevaricazione. Siamo due lobi di uno stesso cervello che si scambiano continuamente le informazioni per cui c’è il primo spunto, la prima elaborazione, la rielaborazione, la riproposizione, l’astrazione.

Mi rendo conto che non sia facile cogliere dall’esterno la dinamica che regola il nostro legame personale e professionale perché anche se io, rispetto a lui, sono l’uomo di spettacolo che si espone, da sempre abbiamo un modo di vedere il mondo e di esprimerci molto simile che era anche figlio di quegli ambienti artistici napoletani in cui si è formata la mia generazione negli anni ’90 e in cui bazzicava lo stesso Paolo Sorrentino.

Nei tentativi di cortometraggio e di teatro ritrovo tantissime cose fatte nell’atmosfera di quell’epoca e quando Sorrentino realizza i suoi bellissimi film, penso che ci sia qualcosina di nostro e con nostro intendo di tutti coloro che non sono assolutamente al suo livello che però condividono quello stesso humus.

Oggi, forse, più che parlare di linguaggi diversi c’è bisogno di crossmedialità che vada bene per tutti i mezzi di distribuzione.

Permettimi un aneddoto. Nei primissimi anni ’90, con il gruppo di lavoro che frequentavo, incontrammo Nanni Loy e gli chiedemmo quale fosse il futuro del cinema e del teatro. Senza mezzi termini rispose che sarebbe confluito tutto nella televisione che sarebbe stata sempre più grande, più bella, con un sonoro migliore e una definizione maggiore. Qualche anno prima Michelangelo Antonioni aveva detto qualcosa di simile in un’intervista. Pur essendo menti geniali e lungimiranti ovviamente non potevano immaginare un tale sviluppo tecnologico che desse la possibilità, ad esempio, di usufruire di uno schermo in HD su un cellulare.

Mentre un tempo per realizzare un particolare prodotto occorreva usare un macchinario apposito, oggi, paradossalmente, i mezzi di produzione sono simili ed intercambiabili; ad esempio, i modelli di videocamera hanno più o meno le stesse caratteristiche e possono essere utilizzati sia per girare una fiction che un film, fermo restando la specificità della scenografia, la resa dell’immagine è all’incirca la stessa, come similari sono il rapporto di grandezza dello schermo e le presentazioni audio.

Si gira con il medesimo intento un film di altissima produzione ben sapendo che la gente lo vedrà in un grande cinema con lo schermo curvo di 2km quadrati in 3D, così come sul cellulare comodamente da casa propria, godendo, qualitativamente parlando, all’80% dello stesso film.

Dato che forma e contenuto sono gli stessi, ciò su cui bisogna puntare, a questo punto, è l’interesse dello spettatore, cercando di scoprire, riscoprire e mettere insieme linguaggi diversi, tramite riproposizioni originali per offrire, con creatività, un risultato innovativo.
Ed è quello che io e Vittorio speriamo di aver fatto con Fade to Black.

Non ci resta che vederlo.

Fade to Black

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Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.